Da fedelissimo alleato a nemico giurato. Da servizievole fiancheggiatore a cinico spione. È un rapporto d’amore e odio quello che lega Nino Lo Giudice a Pasquale Condello. Il pentito di ’ndrangheta, un passato da capo in pectore del quartiere Santa Caterina, non fa mistero del suo tradimento al “capo dei capi”, al boss di Archi conosciuto come “Il Supremo”.
Il progetto di farlo arrestare dai carabinieri l’ha cullato a lungo, agevolandolo, a suo dire, con una serie di preziosissime dritte offerte su un piatto d’argento al brigadiere Francesco Maisano, il sottufficiale dei carabinieri del Ros che avrebbe fatto da collante tra le informazioni dei fratelli Nino e Luciano Lo Giudice e i segugi del colonnello Valerio Giardina che effettivamente la sera del 18 febbraio 2008 scovarono Pasquale Condello in un un appartamento nel rione Pellaro. «Gli dissi io di seguire Giovanni Barillà, i Vazzana»: e così fecero centro.
Fatti, circostanze, dinamiche, nomi e strategie che Nino Lo Giudice ha ribadito ieri davanti al Tribunale collegiale presieduto da Silvana Grasso, di scena nel processo “Meta”, l’inchiesta della Direzione distrettuale antimafia al gotha delle ’ndrine di Reggio Calabria. Con l’udienza di ieri è stato avviato l’attesissimo esame da parte del pm antimafia Giuseppe Lombardo.
La politica Pasquale Condello ordinava e il clan Lo Giudice eseguiva. Qualunque argomento fosse posto all’ordine del giorno. Anche i voti da destinare ai politici di Reggio. Appena arrivava l’indicazione del capo, la famiglia Lo Giudice scendeva in campo compatta. Il collaboratore snocciola tre nomi: «Abbiamo votato per Manlio Flesca, Alberto Sarra e Michelangelo Tripodi. Condello ci inviò “Gingomma” per dirci di appoggiare Flesca e Sarra. Per dare i voti a Michelangelo Tripodi fu invece Carmelo Murina».