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Omicidio Larosa,
il pentito ritratta
le accuse

dromì

 L’italiano è stentato ma il contenuto della lettera inviata da Michelangelo Dromì al presidente della Corte di Appello di Reggio Calabria Giovanbattista Macrì potrebbe anche fare riaprire il processo (anche se i casi di revisione sono rari e tassativamente previsti dalla norma) dell’omicidio di Salvatore Larosa. Il delitto è avvenuto a Rosarno nel 1998 e per quell’omicidio stanno scontando una pena di 24 anni di reclusione Cesare Dromì (condannato come mandante) e Salvatore Giordano (esecutore). Michelangelo Dromì, 38 anni di Rosarno, era un collaboratore di giustizia («premetto che nella mia collaborazione ero molto fragile e insicuro», scrive) ed era stato preciso nel riferire all’autorità giudiziaria «le dinamiche ben precise» che hanno portato alla morte di Salvatore La Rosa, all’epoca convivente della madre dei fratelli Dromì. Ma oggi – a sei anni di distanza dalla sentenza della Corte di assise di Appello che ha ridotto la reclusione del fratello a 24 anni dall’ergastolo che gli era stato inflitto in primo dalla Corte di Assise di Palmi – Michelangelo Dromì si rimangia tutte le accuse che aveva mosso contro il fratello «perché – scrive – quest’ingiustizia mi pesa sempre di più. Mio fratello (oggi Cesare ha 43 anni, ndr.) è detenuto nel carcere di Verona Montorio e non credo che potrà mai perdonarmi ma spero nel perdono di Dio». Se le accuse che aveva rivolto contro il fratello sono diventate un fardello insopportabile per la coscienza di Michelangelo Dromì che cosa mai l’aveva portato a essere così spietato nei confronti di un fratello, che sapeva essere innocente, accusandolo di essere il mandante del convivente della madre? Lo spiega egli stesso riversando la colpa del suo agire nel forte risentimento che egli covava nei confronti della madre che ha voluto punire «con la carcerazione di mio fratello». «Ho messo in atto una collaborazione per colpire direttamente mia madre – afferma Dromì – perché dopo la millesima volta con il suo aiuto mi ha fato togliere la patria potestà di mia figlia Carmela». Ma questa sarebbe stata solo la classica goccia che avrebbe fato traboccare un vaso già colmo da tempo. Il risentimento di Michelangelo nei confronti della madre arriva da lontano. Così scrive: «Io non ha mai avuto un buon rapporto con mia madre. Mia madre nei miei confronti è stata senza morale, mai un sostegno di nessun tipo, mettendomi sempre da parte, a volte nel più totale disprezzo nei miei confronti. Vedendo il comportamento con gli altri fratelli, molto affannosa da parte sua per qualsiasi problema anche minore, tenendo sempre conto dell’invidia sempre morbosa e costante nel passare degli anni. Io, signor presidente, sono stato figlio di nessuno». Da qui, dunque, nasce il disegno di volere colpire la madre. Ma dopo anni il rimorso l’ha roso dentro e Michelangelo Dromì non ce l’ha fatta più a tenersi tutto dentro ed è esploso. «Per vendicarmi della situazione che mia madre mi aveva portato ad allontanarmi da mia figlia Carmela – scrive ancora il “pentito” – ha pagato mio fratello Cesare che attualmente è detenuto per un reato di cui è innocente. Non mi ha mai detto mia madre che mio fratello ha costretto Pasquale Giordano per commetere l’omicidio. Mio fratello non sapeva niente di tutto questo, come, del resto, anche io. Oggi, come nel passato mi sento macchiato. È un’ingiustizia che mi pesa sempre di più». Michelangelo Dromì conclude il suo scritto dicendo di essere a disposizione dell’autorità giudiziaria «aspettandomi l’immediata scarcerazione di mio fratello Cesare». Adesso la palla passa alla magistratura che dovrà valutare se la ritrattazione di Michelangelo Dromì è tale da cambiare il quadro delle prove a carico dei due condannati e quindi aprire un nuovo processo.

 

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