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Arrestati i presunti mandanti del delitto di Pasquale Larosa

 Si era opposto con denunce alle forze dell’ordine ma pure affrontando direttamente i “proprietari” e, soprattutto, i custodi fantasma degli animali lasciati liberi di scorrazzare nei suoi terreni, le cosiddette “vacche sacre” e, verosimilmente, alla successiva pretesa di farsi soffiare gratuitamente gli appezzamenti di terreno, ereditati dal padre, dalla ’ndrangheta della montagna. Ed è per questo, secondo anche quanto accertato dai magistrati antimafia di Reggio Calabria e dai carabinieri del Gruppo di Locri, che la ‘ndrangheta avrebbe deciso di spedirlo al Creatore, crivellandolo a colpi di lupara. Una barbara esecuzione messa in atto a poca distanza dai boschi dello Zomaro, in Aspromonte, luoghi, questi, di dominio assoluto dei clan della zona. A distanza di 10 anni esatti dal terribile omicidio dell’oculista in pensione dell’ospedale di Locri, Fortunato Larosa – 67 anni, originario di Canolo, ma residente con la famiglia a Locri –, è stato stretto il cerchio sui presunti mandati dell’efferato delitto. A fare luce, dopo un decennio di silenzi e varie richieste di giustizia cadute nel vuoto fatte dalla vedova, anche lei medico in pensione dell’ospedale di Locri, sono stati gli investigatori del Gruppo di Locri guidati dal colonnello, Giuseppe De Magistris, coordinati dal pm della Dda, Antonio De Bernardo. Con la pesante accusa di essere stati i presunti mandati dell’omicidio del professionista locrese, a finire con le manette ai polsi all’alba di ieri sono stati due congiunti di Antonimina residenti nella contrada S. Nicola: Giuseppe Raso, 74 anni, alias “l’avvocatu”, e il cognato, Domenico Filippone, di 41 anni. Con Giuseppe Raso, già peraltro noto alle forze dell’ordine e indagato nell’operazione antimafia “Saggezza”, ritenuto dagli inquirenti ai vertici del “locale” di Canolo, il dott. Larosa, secondo carabinieri e magistrati, sarebbe stato «punito per non aver tollerato la sistematica invasione dei propri terreni dal bestiame di proprietà del nucleo familiare Filippone-Raso». Un delitto, quindi, sempre secondo gli inquirenti, compiuto anche «per ribadire la propria egemonia mafiosa sul territorio e favorire l’attività di allevamento e commercializzazione di bovini, di interesse per i vertici del sodalizio e condotta anche attraverso atti di violenza o minacce e con la pretesa del pascolo abusivo su terreni altrui, da tollerarsi in virtù del potere di intimidazione derivante dall’appartenenza del Raso alla ‘ndrangheta». Con l’indagine relativa all’omicidio del dott. Larosa riaperta a ottobre 2013 dal pm antimafia De Bernardo, a far posizionare la lente d’ingrandimento degli inquirenti su Raso e Filippone sarebbero state alcune intercettazioni telefoniche e ambientale compiute nell’ambito dell’operazione “Saggezza”, il blitz delle forze che successivamente sollevò il coperchio sugli organigrammi e sulle attività illecite di 5 “locali” di ‘ndrangheta: Antonimina, Ardore, Canolo, Ciminà e Cirella di Platì. L’agguato mortale al dott. Larosa, proprietario nel territorio di Canolo di decine di ettari di terreno coltivato e di un’avviata azienda agricola, scattò l’8 settembre del 2005 nella contrada montana Bruverello di Gerace, lungo la strada provinciale 111 Locri-Gioia Tauro, mentre il professionista stava rientrando a casa all’ora di pranzo alla guida del suo fuoristrada Opel Frontera dopo aver trascorso l’intera mattinata a curare e a controllare i suoi terreni.

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