L’indagine “Crimine”, oltre ad aver individuato l’unitarietà della ‘ndrangheta, con un vertice detto “Crimine” o “Provincia”, ha indicato un centralismo di regole che hanno ricadute su un determinato assetto organizzativo, condizionato dalla necessità di mantenere un equilibrio tra zone territoriali e regole di condotta collettiva in tema di controllo reciproco e contenimento delle ambizioni personali. In questo contesto i giudici della Corte di Cassazione, nella sentenza del troncone dell’abbreviato del processo “Crimine”, individuano nelle “doti” un percorso interno dal quale non si può prescindere per meglio comprendere la “struttura” dell’associazione calabrese.
«È logico ritenere – si legge in sentenza – che l’attribuzione della “dote” non sia un fatto formale, ma segni l’effettiva progressione del potere mafioso della persona che riceve tale conferimento». Il primo punto che viene evidenziato «è l’effettiva “importanza” della attribuzione delle diverse “doti” che segnano il percorso interno del soggetto affiliato nell’ambito della consorteria criminosa, dalla “società minore” alla “società maggiore”, contesti cui si fa diretto riferimento nelle captazioni (sono pressoché costanti i riferimenti verbali al conferimento di doti come la santa, il vangelo, il quartino, il trequartino, il padrino, la stella). L’istruttoria ha infatti fornito numerosi e tangibili esempi al riguardo, puntualmente evidenziati nelle decisioni emesse dal Gup e dalla Corte d’appello reggina».
Ritengono i giudici della Prima Sezione Penale: «Ciò spiega, sul piano storico e logico, come l’attribuzione della “dote” rappresenti – nel contesto umano esaminato – da un lato un riconoscimento per il soggetto che la riceve (con tutta evidenza meritevole in concreto e sul campo, e dunque segnale di attivismo riconosciuto dagli altri associati), dall’altro segni una crescita di importanza della realtà territoriale che “contiene” un numero più elevato di aderenti alla società maggiore».
A tal proposito si legge ancora oltre sul tema: «Da qui – in un agire collettivo che appare fortemente condizionato, fino all’ossessione, dalla necessità di un mantenimento degli equilibri complessivi tra zone territoriali diverse (tirrenica/jonica - Calabria/Lombardia) – la necessità di un modello organizzativo che preveda una forte “condivisione” circa la attribuzione ai singoli affiliati di tale riconoscimento e materializzi, pertanto, degli assetti superiori (rispetto alla singola unità territoriale) abilitati al conferimento del titolo e al controllo dell’operato delle singole locali».
Come cristallizzato nella sentenza: «Non si tratta, pertanto, di una ossessione sterile e fine a sé stessa (come potrebbe apparire lì dove le singole espressioni verbali – indubbiamente tese ad evocare rituali simbolici mutuati da una subcultura arcaica – vengano esaminate con la lente del soggetto estraneo a tali contesti e, ancor di più, al modello etico sottostante) quanto della applicazione di regole di condotta collettiva in tema di controllo reciproco e contenimento delle ambizioni personali che, come ritenuto nei giudizi di merito, hanno un indubbio valore al fine di mantenere non soltanto l’ordine interno alla unità territoriale ma l’ordine complessivo di un gruppo criminale che, al meno nelle intenzioni, tende a governare se stesso».
La sentenza riporta alcune circostanze particolari. Per esempio «al fatto che per il conferimento della dote della santa è necessario l’accordo tra soggetti di vertice appartenenti a realtà territoriali diverse, cui spetta il potere di realizzare la volontà del gruppo nel suo complesso».
Il fatto che «i contrasti sorti nel Milanese derivino (...) da contrasti sulla dote e sulla autorità da attribuire (...) con necessità che gli avanzamenti “di ruolo” anche in Lombardia debbano essere approvati dai referenti delle famiglie calabresi».
Infine al fatto che «lì dove siano emerse più condotte devianti da parte degli affiliati cui è stata, in precedenza, attribuita una “dote” o l’esercizio di una “carica” si arrivi ad ipotizzare il congelamento temporaneo della stessa società di Siderno, con azzeramento di tutti i conferimenti, per l’evidente necessità di auto-protezione del gruppo criminoso in quanto tale».
«Dunque è logico – in definitiva – ritenere che l’attribuzione della “dote” non sia un fatto formale ma segni l’effettiva progressione del potere mafioso della persona che riceve tale conferimento».
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