«La ’ndrangheta è fenomeno criminale unitario, articolato in diramazioni territoriali, intese locali, dotate di sostanziale autonomia operativa, pur se collegate e coordinate da una struttura centralizzata».
È quanto scrivono i giudici della Seconda sezione penale della Cassazione, presidente Piercamillo Davigo, relatore Luigi Agostinacchio, nelle motivazioni della sentenza del processo “Crimine”, dove per 19 imputati la sentenza di condanna, per complessivi 155 anni di reclusione, è definitiva, mentre per 4 posizioni è stato accolto il ricorso della procura generale con rinvio per un nuovo esame.
La decisione degli Ermellini, del 18 maggio scorso, ha in concreto posto una nuova sostanziale conferma dell’impianto accusatorio con il quale la Procura distrettuale di Reggio Calabria, in particolare, all’epoca, il procuratore Nicola Gratteri insieme al pool di sostituti procuratori composti da Antonio De Bernardo, Giovanni Musarò e Maria Luisa Miranda, ha ritenuto di aver svelato l’esistenza di una ’ndrangheta unitaria con un vertice delle locali nel “Crimine di Polsi”.
Nelle motivazioni della sentenza del troncone che ha seguito il rito ordinario si legge: «La mafia, e più specificamente la ’ndrangheta che di essa è, certamente, l'espressione di maggiore pericolosità, ha oramai travalicato i limiti dell'area geografica di origine, per diffondersi, con proprie articolazioni o ramificazioni, in contesti geografici un tempo ritenuti refrattari od insensibili al condizionamento mafioso».
La forza intimidatrice del vincolo associativo dei clan calabresi, riuniti sotto il “Crimine”, ha trovato nell’immediatezza e nell’alta cifra di diffusione dei moderni mezzi di comunicazione propri della globalità, secondo uno schema descritto efficacemente dai giudici della Cassazione, un : «contribuito ad accrescere a dismisura la fama criminale di certe consorterie, di cui, oggi, sono a tutti note spietatezza dei metodi, ineluttabilità delle reazioni sanzionatorie, anche trasversali, in equivocità ed efficacia persuasiva dei codici di comunicazione». Sul punto si legge poco oltre: «E non è certo azzardato ritenere che la mafia - e segnatamente la ’ndrangheta - specie se non contrastata efficacemente nei territori di origine, sia in grado, ove lo voglia, di radicarsi ovunque, pur se con rischio variabile, per imporre i propri strumenti persuasivi in vista del conseguimento di illeciti obiettivi».
La vicenda
Nel filone in ordinario del maxiprocesso “Crimine” la Cassazione ha disposto 19 condanne per complessivi 155 anni di reclusione. Con questa operazione scattata nel luglio del 2010, gli inquirenti hanno ritenuto di aver identificato le cariche attribuite nell’estate del 2009 ai vertici del “Crimine di Polsi”, che sarebbero state “formalizzate” in occasione della festa della “Madonna della Montagna” nel settembre di quell’anno, dopo una serie di trattative tra i presunti maggiorenti delle “97 locali di ’ndrangheta” presenti nella provincia a sua volta distinte nei mandamenti denominati Jonica, Tirrenica e Centro.