La pronuncia della Corte di Cassazione nel processo “Crimine”, definito con il rito ordinario, cristallizza i requisiti minimi di «riconoscibilità della condotta di partecipazione a un’associazione di stampo mafioso». Il tema è stato uno dei motivi di censura presentato dalle difese che, in generale, hanno richiamato l’attenzione su alcuni pronunciamenti giurisprudenziali, in particolare la sentenza “Mannino” delle Sezioni unite del 2005, propensi a riconoscere la punibilità solo in presenza di un riconoscibile apporto alla vita dell’associazione.
Al contrario per i giudici della II sezione penale le osservazioni della Procura di Reggio Calabria, incentrate sull’assunto secondo cui «dall’affiliazione rituale si può desumere la stabile e organica compenetrazione nel tessuto organizzativo del sodalizio, si rivelano fondate e condivisibili: affiliarsi formalmente, infatti, vuol dire mettersi “a disposizione” degli interessi dell’associazione mafiosa, a tempo indeterminato; condotta che, in sé considerata, accresce le potenzialità dell’organizzazione criminale e, di conseguenza, l’effetto di intimidazione che promana dalla stessa».
In sintesi, dopo un richiamo a diverse sentenze, la Corte rileva: «Non sono quindi in alcun modo fondate le doglianze, innanzitutto, dei soggetti raggiunti da precise indicazioni probatorie circa l’avvenuto conferimento di una dote, posto che in tal caso l’applicazione della massima di esperienza per cui il conferimento di tale riconoscimento implica l’avvenuta attivazione in ambito associativo, con pieno merito della persona destinataria, non soltanto non risulta contraddetta dall’istruttoria ma è apparsa pienamente confermata». Tale conclusione viene estesa anche all’affiliazione: «Perché il semplice giuramento di adesione consapevole al gruppo dimostra la disponibilità ad offrire al gruppo il proprio contributo alla vita dell’ente sì da ampliarne le potenzialità operative sul piano criminale».
In definitiva la sentenza sottolinea che il Tribunale di Locri prima e la Corte di Appello di Reggio poi hanno mostrato di aderire a tale impostazione «non solo in termini generali ma nell’analisi anche delle posizioni dei singoli imputati, ravvisando gli elementi costitutivi del delitto di cui all’art. 416 bis anche a carico di soggetti che occupavano il gradino più basso nella gerarchia della ‘ndrangheta».
La sentenza della Cassazione “Crimine” concluso in ordinario ha portato a 19 condanne definitive per oltre un secolo e mezzo di carcere. Ha accolto il ricorso della Procura reggina per 4 imputati ed ha confermato due assoluzioni.