Vincenzo Carlino «rappresentava il trait-d’union tra le locali del Nord e quelle del Sud, curando i rapporti con i referenti delle cellule lombarde, ciò a riprova dell’esistenza di un vero e proprio cordone ombelicale tra le strutture di ‘ndrangheta esistenti nel territorio nazionale». È quanto scrivono i giudici del Tribunale di Locri nella sentenza di condanna di primo grado a 7 anni di reclusione del 63enne Carlino, accusato di associazione mafiosa quale membro della “locale di Grotteria”.
Secondo l’accusa, rappresentata dal sostituto procuratore Adriana Sciglio, della Dda reggina, Vincenzo Carlino (cl. 54), difeso dall’avv. Domenico Lupis, avrebbe intrattenuto stabili rapporti con soggetti della provincia di Como, indagati nell’operazione “Insubria”, che ha colpito le locali di alcuni comuni della Lombardia. Il processo al 63enne di Grotteria rappresenta lo sviluppo di “Insubria”, una tranche celebrata con il rito alternativo dinanzi al gup reggino con la condanna di tre imputati.
Nonostante il processo abbia riguardato una singola posizione il tribunale locrese, (Amelia Monteleone presidente, Gabriella Logozzo giudice relatore, Carmela Foresta giudice), si è richiamato alla sentenza della Cassazione “Crimine” in abbreviato, ma ha evidenziato come l’istruttoria «ha consentito di appurare, seppur incidentalmente, l’effettivo funzionamento di una struttura – di certo con ampio raggio di azione – tesa a rendere unitaria e omogenea l’azione di un consistente numero di locali operanti in Lombardia, funzionalmente dipendenti da quelle operanti in Calabria, dalle quali ereditavano le tradizionali caratteristiche». Il Collegio ritiene che la condotta dell’imputato «si è estrinsecata nella sua partecipazione ai riti di affiliazione e nel contributo fornito alla vita associativa mediante il suo coinvolgimento nelle vicende di interesse del gruppo criminoso».