La novità dell’indagine “Ndrangheta stragista” – oltre ad avere esplorato l’alleanza tra cosa Nostra e alcune cosche della ’ndrangheta – è rappresentata dall’avere individuato che il collegamento fra le organizzazioni criminali e il mondo politico era costituito da quella parte di massoneria (deviata), ispirata e, in ultima analisi, governata, all’inizio degli Anni ’90, da Licio Gelli.
Ciò che è emerso dalle concordi e costanti dichiarazioni dei collaboratori di giustizia siciliani e calabresi, pur provenendo da aree diverse, è il rapporto stabile di cooperazione tra Cosa Nostra e ’Ndrangheta in quegli anni e il ruolo chiave svolto dalla cosca Piromalli di “cerniera” tra le famiglie siciliane e quelle calabresi. Meglio: dalle dichiarazioni dei “pentiti” si evince che la famiglia Piromalli rappresentava il punto di riferimento di Cosa Nostra nella ‘Ndrangheta calabrese. Tutte le riunioni, infatti, si svolgevano con cadenza frequente nei territori del mandamento tirrenico, perché la famiglia Piromalli rappresentava, in quel momento storico, la vera forza criminale, con cui Cosa Nostra condivideva i medesimi obiettivi.
Luoghi riservati
La cosca calabrese aveva, quindi, manifestato il proprio pieno e incondizionato appoggio all’organizzazione siciliana all’attuazione della strategia stragista e, in tale direzione, offriva disponibilità e ogni ampia garanzia per lo svolgimento delle riunioni, individuando i luoghi riservati di incontro e convocando i rappresentanti delle ‘ndrine.
Oltre la Piana
«A conferma di ciò – scrive il gip Olga Tarzia –, vanno riportate, tra tutte, le dichiarazioni di Vincenzo Grimaldi, che aveva rapporti diretti con i vertici del clan Molè-Piromalli (all’epoca saldamente unito e compatto), nella parte in cui riferisce di un rapporto “assolutamente privilegiato” intercorrente tra l’organizzazione criminale siciliana, nel cui contesto si inserisce la famiglia Graviano, e quella calabrese. Se i siciliani, Nitto Santapaola e Totò Riina, dovevano mandare una “imbasciata” in Calabria di un certo rilievo, si rivolgevano sicuramente in prima battuta ai Piromalli-Molè con i quali avevano un rapporto assolutamente privilegiato. Del resto almeno all’epoca, quella dei Piromalli-Molè era la famiglia più potente della ’ndrangheta calabrese esercitando un’influenza determinante anche su cosche che da un punto di vista territoriale si trovavano al di fuori della Piana di Gioia Tauro».
Interlocutori privilegiati
Anche il collaboratore Arturo Umili si muove nella stessa direzione e indirettamente lascia intendere che «la famiglia Piromalli era l’interlocutore privilegiato dei siciliani, nel momento in cui – precisa – che gli equilibri nella città di Reggio Calabria, reduce dalla lunga guerra di mafia, erano all’epoca instabili e non era chiaro chi fosse l’interlocutore da privilegiare, mentre i Piromalli dominavano in maniera incontrastata da anni nella Piana di Gioia Tauro ed offrivano valide garanzie perché erano una famiglia tra le più importanti tra quelle calabresi e dunque avevano tutte le carte in regola per essere contattati».
Gelli e la Calabria
La presenza e l’influenza, anche indiretta, sulle dinamiche criminali calabresi del Maestro Venerabile Licio Gelli, è stata evocata dal pentito Consolato Villani: «La stanza dei bottoni che comanda sulla ‘ndrangheta militare, è quella di cui facevano parte l’avv. De Stefano, Paolo Romeo e l’on. Ligato, ucciso per indebolire proprio i De Stefano. Tale sistema è necessario anche al fine di controllare gli esponenti politici compiacenti. Tanto l’avv. Paolo Romeo che l’avv. Giorgio De Stefano facevano parte della P2 di Licio Gelli che spesso si recava a Reggio Calabria. Ciò mi è stato detto da Nino Lo Giudice e Peppe Reliquato».
«Il dato riferito da Consolato Villani – annota il il gip nell’ordinanza di custodia cautelare – trovava corrispondenza nella sentenza n. 6/98, del 13.3.1998, emessa dalla Corte d’Assise d’Appello di Reggio Calabria sull’omicidio dell’ex parlamentare Ligato, nella quale si faceva riferimento al legame della vittima con il cartello destefaniano (in particolar modo nei paragrafi titolati «I collaboratori di Giustizia» ed «Il Movente»), nonché nelle sintoniche dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Giacomo Ubaldo Lauro e Filippo Barreca.
Il pentito Costa su Don Mommo
La Santa e il massone
Finché è stato in vita il capo indiscusso del clan Piromalli fu Don Mommo. E proprio di lui, escusso dalla Dda di Palermo nel 1994, parlò il collaboratore Gaetano Costa: «Fu Mommo Piromalli che, attesi gli enormi interessi che all’epoca sussistevano nel Reggino (ferrovia, la centrale siderurgica e il porto di Gioia Tauro...), al fine di gestire la realizzazione delle opere pubbliche, si fregiò del grado di “santista” che, a suo dire, gli era stato conferito a Toronto, dove c’era un’importantissima 'ndrina. La santa poteva essere conferita solo a 33 persone e si poteva attribuire a nuovi soggetti solo in caso di morte di altro santista… Mommo Piromalli era massone o, comunque, vicinissimo alla massoneria, per differenziare ulteriormente la società di Santa da quelle minori, introdusse la regola per cui ogni componente della Santa poteva entrare nella massoneria».
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