«Il materiale probatorio consente di ritenere provata l’esistenza di un gruppo criminale dedito al narcotraffico su vasta scala, organizzato con una struttura orizzontale ove ognuno, dotato di autonoma e accertata operatività, risultava avere sempre agito in perfetta sinergia con gli altri». È quanto scrive il Gup di Reggio, Nicolò Marino, nella sentenza del processo nato dall’operazione antidroga “Santa Fé”, che si è concluso in abbreviato con 27 condanne per oltre tre secoli e mezzo di reclusione e 4 assoluzioni.
Il giudice ha ritenuto che il medesimo materiale «consente di concludere per la centralità del porto di Gioia Tauro quale - purtroppo - crocevia del traffico internazionale di stupefacenti, in particolare cocaina».
L’indagine è stata coordinata da un pool di magistrati della Procura Distrettuale antimafia reggina composto dai sostituti procuratori Simona Ferraiuolo, Francesco Tedesco, Matteo Centini e Luca Miceli. L’accusa principale è quella di partecipazione ad una associazione dedita al traffico internazionale di sostanze stupefacenti ed altri reati. Le condanne vanno da un minimo di 4 anni ad un massimo di 20 anni di reclusione, per le varie contestazioni mosse dalla Procura reggina che, dagli esiti investigativi, ha ritenuto di aver individuato l’operatività di un’associazione dedita al narcotraffico con collegamenti tra soggetti ritenuti vicini a consorterie operanti nel territorio reggino della costa Jonica e di quella Tirrenica.
Si legge in sentenza : «La struttura decisionale, nella sua massima operatività, faceva comunque capo, nelle sue “articolazioni”, alle figure apicali di Giuseppe Alvaro, Vincenzo Alvaro, Francesco Di Marte, Antonio Femia ed era certamente operante nella provincia reggina, ed in stretto contatto con i fornitori stranieri, per il tramite di una fitta rete di corrieri ed intermediari».
Ritiene inoltre il giudice che vi sia una “associazione calabrese”, «che ha assicurato l’importazione finalizzata al successivo smercio in Italia di ingenti quantitativi di stupefacente», aggiungendo inoltre che «gli atti del processo acclarano la presenza di altre due organizzazioni criminali di settore, quella “ecuadoregna”, preposta alla produzione e alla fornitura di stupefacenti in tutte le parti del mondo; quella “brasiliana”, avente le medesime finalità della omologa ecuadoregna».
Concludendo: «Il fenomeno disvelato, quindi, si connota per una notevole complessità poiché si intrecciano diverse compagini associative che hanno dimostrato di interagire in maniera armonica».
Per quanto attiene al porto di Gioia Tauro «è evidente la capacità di penetrazione, disponendo i soggetti di una squadra di operai portuali idonea a recuperare la droga, nonostante continui e frequenti controlli di polizia amministrativa (ispezioni doganali) che hanno permesso di sequestrare nel corso degli anni tonnellate di cocaina».
Partite colossali di sostanze stupefacenti, cocaina purissima e di primissima qualità, che assicuravano alla holding dei reggini incastrati con l’operazione “Santa Fè” ingenti ricavi. Fiumi di denaro, secondo la ricostruzione processuale effettuata dal Gup di Reggio al cui esame ha retto quasi per intero il pesante quadro accusatorio sostenuto dalla Direzione distrettuale antimafia reggina e dagli 007 della Guardia di Finanza.
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