Beni per 33 milioni di euro, appartenenti a esponenti della cosca Labate, operativa nei quartieri Gebbione e Sbarre di Reggio Calabria, sono stati confiscati dai finanzieri del Comando provinciale reggino e del Nucleo speciale polizia valutaria con il coordinamento della Dda diretta da Giovanni Bombardieri, in esecuzione di un provvedimento dell'Ufficio misure di prevenzione del tribunale su richiesta del procuratore aggiunto Calogero Gaetano Paci e del pm Stefano Musolino.
Tra i beni confiscati figurano il patrimonio e quote sociali di 5 complessi aziendali, 62 tra fabbricati e terreni, 3 auto e rapporti finanziari/assicurativi e disponibilità finanziarie. Con la confisca di oggi, il valore dei beni sottratti alla 'ndrangheta dalla Guardia di finanza di Reggio negli ultimi 18 mesi, sale ad oltre 630 milioni. Tra i soggetti interessati al provvedimento c'è Michele Labate, di 62 anni, ritenuto esponente di vertice della cosca insieme al fratello Pietro e già condannato per associazione mafiosa.
Pietro Labate, già sorvegliato speciale di Ps e latitante per lunghi periodi, nel 2015 è stato sottoposto a fermo dal Gico del Nucleo di Polizia economico finanziaria di Reggio Calabria per intralcio alla giustizia aggravato dalle finalità e modalità mafiose, per avere minacciato una testimone in un processo nei confronti del fratello Michele e di altri esponenti della cosca per indurla a commettere falsa testimonianza. Per tale delitto, Pietro Labate è stato condannato in appello a 5 anni di reclusione.
Gli altri soggetti interessati dal provvedimento sono i fratelli Giovanni e Pasquale Remo già condannati in primo grado a 15 anni di reclusione per concorso in associazione mafiosa e gli eredi dell'imprenditore Antonio Finti, deceduto nel 2014. Quest'ultimo, pur non essendo mai stato coinvolto direttamente in procedimenti penali, era ritenuto vicino ai Labate sulla base di dichiarazioni di collaboratori di giustizia riscontrate dagli i9nvestigatori. Inoltre, dagli accertamenti svolti dalla Guardia di finanza sarebbe emerso che gli investimenti immobiliari effettuati nel tempo erano stati del tutto sproporzionati rispetto alle risorse lecite disponibili.
I finanzieri, inoltre, oltre a stabilire la pericolosità sociale di Labate e dei Remo, con le loro indagini hanno qualificato le imprese a loro riconducibili come "imprese mafiose" in quanto nate e accresciutesi sfruttando il potere mafioso della cosca per sbaragliare la concorrenza e imporsi sul mercato.