Reggio

Sabato 23 Novembre 2024

“Sono passati 14 anni, ragazzo mio, ora devo parlarti”, Liliana Esposito per la prima volta “racconta” al figlio di suo figlio

Sono passati 14 anni, caro ragazzo mio, e ora è proprio necessario parlarti. Ho aspettato che ti sistemassero la vita, come si fa con un armadio, riordinando con cura, per far pensare che si è capaci d’esprit de finesse. Si è deciso che per te fosse più importante quello che più fosse stato “pubblico” e “apprezzabile”, i calzini di filo di Scozia e la scuola calcio, la fisarmonica, il catechismo nelle sacristie opprimenti e le feste di compleanno a bordo di una piscina illuminata, tutto come nella reclame del mulino bianco. Ti parlo adesso senza rammaricarmi delle tante occasioni perdute; queste non sono “le parole d’amor che non ti dissi”, ma piuttosto un racconto di fatti, perché la verità va salvaguardata, sempre. E quanto più è scomoda tanto più deve essere portata alla luce. In questi anni ho incontrato centinaia di ragazzi di tutta Italia, per far conoscere loro le storie di questa Calabria lacrimosa, e l’irrinunciabile diritto a sperare, perciò mi sento proprio un artigiano narratore, e poi so tanto di te, ragazzo sensibile e riflessivo. Ti ho immaginato cercandoti in frasi trite e ridondanti ipocrisia, in cartacce esaltate come testimonianze altamente morali e come esercitazione di professionalità rara, che non erano se non conclusioni vischiose della pusillanimità e della superficialità di chi ti considerava solo un numero su un fascicolo. Ancora non so come, quando e da chi ti sia precipitata addosso la verità, quella che sarebbe dovuta essere una fiaba: triste, raccontata con il sostegno di empatia e di gradualità, ma pur sempre una fiaba. Invece, deve essere accaduto proprio come si paventava : «… perdurando il silenzio sul delitto acquisirà la verità sulle sue origini in modo violento e becero…». Ti vidi la prima volta nell’indefinibile sorpresa di un’ecografia, e poi incontrai più volte il tuo viso chiaro, e ti tenni in braccio. Parlare a te è facile, anche se quando sei stato bambino non ti ho accompagnato a cercare Bellezza tenendoti per mano. È facile anche se non siamo mai stati vicini seduti a fare le paginette e i pensierini che disegnano il mondo. È facile perché ti conosco bene, perché tu somigli a mio figlio. Avevo un figlio bellissimo e generoso, che non sorrideva perché il sorriso glielo avevano rubato, e gli negavano l’affetto più grande. Donava il sangue ai bambini talassemici, curava pianticelle di basilico e menta, era buono e laborioso. Avevo un figlio alto e forte che ascoltava la canzone di Goldrake, e una sera come in un presentimento mi dedicò “Per sempre” di Celentano. Avevo un figlio che ho accompagnato all’altare, elegantissimo e profumato, ma non l’ha visto nessuno, perché era chiuso in una bara. Una sera di settembre tornava da una partita di calcetto. C’era un albicocco ancora verde, in cortile, e dietro il muro c’era una lupara. Avevo un figlio che è rimasto in croce per sei giorni, ma che ha trovato il fiato di raccomandarmi la sua creatura. Perché ti racconto queste cose? Non so neppure se ti raggiungeranno queste mie parole, ma i fatti questi sono, e non devo elaborarli per renderli più interessanti, dal momento che la mia voce è stata sempre veritiera e leale, in un oceano di chiacchiere ipocrite e opportuniste. Attorno a te si sono mossi sedicenti pedagoghi e gente di chiesa e di scuola, soloni e tromboni. Tanti si sentivano i soli depositari del giudizio, i soli capaci di fare analisi e, persino, molti suggerivano azioni risolutive. Sentenze sputate, gratuite, impietose, che mi comparavano con altre situazioni, delegittimando le mie istanze, che finché vivo continuerò a rinnovare perché credo in una Giustizia indivisibile dalla Carità. Nella realtà della “dignitudine”, dei malintesi legami di sangue , di un utilitaristico senso di “amicizia”, nelle molte sfaccettature della violenza agita o anche solo accettata, tanti si sono dichiarati esperti dell’etica per un figlio. Alcuni, in occasioni mediaticamente solenni, aspettavano di misurare le mie lacrime, come se io fossi una prefica d’Aspromonte; molti s’impegnavano a correggermi perché non perdòno («eh ma quantu siti mala...»). Tu diventavi grande ed io attraversavo tribunali, perché non ero, io, la madre biblica che si sarebbe contentata di carne squarciata. L’Amore è mite, e tutto sopporta: ed è stato per me così importante il tuo benessere esistenziale, lo è tuttora, e così forte è ancora l’imperativo morale che mi alimenta. Non così forte fu invece il coraggio con cui ho salutato in una seconda bara il figlio mio. C’era stato un giuramento sulla tua testa di innocente, un’oscena blasfema menzogna che ha portato – per Affari di Giustizia – alla profanazione della sua tomba, consacrata 929 giorni prima. Mio figlio è Massimiliano Carbone, e la sua Memoria è il mio riscatto. A te, oggi uomo fatto, ora che ti proietti nell’autodeterminazione della tua esistenza, auguro di essere capace di attaccare il tuo carro alle stelle, di rivendicare sempre e dovunque il tuo diritto alla rabbia per le cose che ami, vincendo ogni mediocrità e ogni rassegnazione. Ti raccomando una cosa, e che sia per te un’assunzione di impegno, te ne faccio preghiera, perché so che vuoi fare il medico, e dunque conoscerai la sofferenza nelle sue molteplici forme e ti voterai a curare e confortare: inchinati a Cristo, che rappresenta il dolore dell’umanità, e al Cristo Mio non risorto dalla sua pietra violata. Vedrai madri sorreggere figli straziati, vedrai malattia e agonia, vedrai cadaveri. Vedrai il miracolo di Dio nella sua terribile fragilità, come io ho dovuto vedere il corpo santo di mio figlio fatto a pezzi in un’autopsia che mi è stata illustrata con centinaia di pagine e 76 fotografie a colori. Vedrai la pochezza e la caducità delle cose terrene, tutte, durante un’esumazione. Conoscerai la vita nel suo riprodursi così perfetto, colori e umori e gesti e attitudini, come ti spiegherebbero quelle consulenze di Genetica che tutto dicono di te, un Dna che ti rende compatibile al 99,999999% con mio figlio, giovane uomo sano e bello, 30 anni per sempre in un camposanto. Spesso dimenticherai il suo nome, non lo porterai nel cuore o nella mente, sarà assente nelle tue preghiere come lo è stato nei tuoi occhi, ma tu, siine certo, sei nato di magnifico e non colpevole amore, e sei stato amato con tenerezza e sacrificio; perciò sii degno dei tuoi talenti e con fierezza porta onore alla Memoria di questo ragazzo di Locri, ucciso perché era amabile, e così umiliava i miserabili, gli ominicchi disonorati che pagano per fare cancellare quella grandezza e quella Bellezza che a loro fanno ombra, e incaricano di sparare uno che tira bene, nel buio, con un canne mozze caricato a pallettoni per cinghiali. “Guai a voi che avete dimenticato la Giustizia e la pietà”, dice sant’Agostino. “Guai a voi che avete negato verità e rubato speranze” dico, con il mio lutto che condanna, io che sono autorevole e qualificata a questo monito, perché sono la mamma di tuo padre.

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