È la prima cosa che colpisce, di Mimmo Lucano: il suo tono. Lontanissimo dalle esibizioni urlate dei tanti che si contendono la scena pubblica. I suoi modi dimessi, di calabrese antico dalle mani grosse, il compare buono da cui vanno a giocare tutti i ragazzini della ruga, in uno qualsiasi dei nostri paesi spopolati e ridotti all’osso, dove però non dobbiamo fare l’errore di credere che non ci sia più nulla, che non accada più nulla. «Il mio paese – dice Mimmo Lucano, ieri sera ospite di Fabio Fazio a “Che tempo che fa” – fa parte delle aree interne del profondo Sud, dove l’emigrazione è l’unica soluzione». E lui cercava una soluzione diversa per il suo paese, e se l’è trovata un giorno d’estate, sulla spiaggia: i profughi curdi sbarcati per caso in Calabria. Mimmo Lucano lo dice nella maniera più semplice e dimessa possibile: «Non chiamatelo “modello Riace”, non è uno schema». Il suo viso aperto rispecchia e restituisce ogni emozione: aggrotta la fronte, inorridisce alla sola ipotesi di considerare gli esseri umani cifre, dati o comunque oggetti d’esperimento. Era così semplice, d’altronde: tutte quelle case vuote e tutte quelle persone senza casa. «È stata accoglienza spontanea: quale essere umano può restare indifferente davanti a qualcuno che ti chiede di essere aiutato?» dice, e non c’è ombra di retorica nel suo viso largo senza ombre. Non polemizza, non inveisce, non è interessato ad alcun uso contundente della parola che gli viene data in questa ribalta così grande (che è il motivo per cui la Lega di Salvini voleva che Fazio non lo ospitasse), non vuole mandare messaggi trasversali e nemmeno colpire uno o più nemici. La cosa più bella, di quest’uomo con tanti nemici, è che si comporta come se non ne avesse, come se poco importasse della sua persona stropicciata e umile. E il suo cruccio vero, infatti, adesso è che tutto quello che è stato costruito non sia distrutto, comunque vadano le sue personali vicende giudiziarie. E per costruire non intende soltanto i laboratori multietnici, il frantoio, il servizio di raccolta rifiuti con gli asinelli (che nell’Italia, e nella Calabria, dell’immobilità brillano comunque di luce propria), e tutto quel che è stato fatto all’inizio del “modello Riace”, ben prima che arrivassero i contributi pubblici (e tornare a quella fase, dice, forse è l’unico modo per continuare). Mimmo Lucano parla di «geografia umana che è cambiata», del valore della «coscienza» che questo “esperimento non esperimento” ha allargato in tutti, dell’importanza di restare umani. E quando Fazio gli chiede: «Ma lei crede di aver fatto qualcosa di sbagliato?», risponde limpido: «Io rispetto la legge, ma quando si vede qualcuno che muore è impossibile restare indifferenti. I pescatori dovevano guardare e lasciare annegare i profughi senza fare nulla? Anche le leggi naziste erano la legalità, ma non erano giuste. Io credo che la giustizia ha un valore molto più profondo». Non fuori dalla legge, ma dentro e oltre la legge, dentro la giustizia, se la legge contraddice l’umanità. E ancora, l’altra parola fortissima è «speranza». Perché se è possibile a Riace, paese remoto, spopolato e depresso in una delle zone più depresse d’Italia, «è possibile ovunque». La nuova geografia umana di Riace, fondata sulla coscienza e sulla fiducia, come esempio per tutto il mondo dominato dalla paura. E Mimmo Lucano dice parole – nel suo discorso senza politica che risulta il più puro e politico degli ultimi tempi – che restano forti nella coscienza: utopia, umanità, sogno, ideale. L’alfabeto di base per ricominciare la convivenza del nuovo millennio. Anche solo per questo, e comunque vada, dovremmo dire tutti grazie, a Mimmo Lucano.