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Riace, viaggio nel paese dell'utopia e della speranza

La facoltà di illuderci che la realtà d’oggi sia la sola cosa vera, se da un lato ci sostiene, dall’altro ci precipita in un vuoto senza fine, perché la realtà di oggi è destinata a scoprire l’illusione domani”. Non c’è alcuna Verità da scoprire a Riace. Il borgo dell’accoglienza, un pugno di case affacciate sullo Ionio, è un paese come tutti gli altri, molto curato e pulito: solo che ne manca un pezzo, ed è il cuore che l’ha reso famoso nel mondo. Chi vi giunge trova quello che cercava, che è quello che tutti raccontano, anche se non vi hanno mai messo piede. Tuttavia chi, come il Pirandello di “Uno, nessuno e centomila”, ha occhi per vedere e soprattutto orecchie per distinguere, non ha che da arrendersi all’evidenza di quanto labile sia il confine tra Verità e Illusione, e di come il sogno di Domenico Lucano, sindaco sospeso e sotto inchiesta, cammini sull’orlo del precipizio che separa la più nobile delle utopie umanitarie dalla più volgare e cinica mercificazione che su di essa sia mai stata edificata. Un viaggio verso il nulla, dunque. Anzi peggio, un viaggio destinato a infrangersi verso la meno umanitaria delle utopie: la speranza che la Giustizia stabilisca la Verità. Molto meglio le utopie dunque, anche se – forse illusoriamente, pure loro – avvolte nel mantello dorato della speranza.

C’è accoglienza e accoglienza

Nel paese dell’accoglienza, quella che ci riserva Giuseppe Gervasi, giovane vicesindaco in carica, è raggelante: «Sei venuto anche tu a dimostrare che il paese è un deserto?». Letteratura romantica quasi, a Riace è lo sport del momento, ma i nervi tesi sono comprensibili. E il “tu” è di default, in una terra dove, davvero, ognuno di noi è il “diverso”. «L’ultimo servizio in tv l’hanno montato con la musica tragica, come se il paese fosse reduce da un bombardamento. Vengono qui alle 10 del mattino, non vedono nessuno in strada e mettono su il teatrino. Dimmi tu, ti sembra un deserto questo?». No, Riace non è un borgo spettrale da quando i pullman sono arrivati a portar via i migranti, quelli che se ne sono voluti andare. Passa una giovane donna mulatta con due bellissimi bambini, e tre monelli africani ci fanno le smorfie dietro le finestre di una casa famosa, immortalata in cento foto alle spalle di un sorridente Lucano. Rotto il ghiaccio, anche Gervasi sorride: «Qui al borgo ce ne saranno ancora una cinquantina, su 600 abitanti in tutto, e molti altri alla Marina. Io da tre mesi cerco di andare avanti, fino a maggio non molleremo, rispondo a tutti al telefono e accolgo chiunque voglia venire. La luce non deve essere spenta, c’è un messaggio di umanità da salvaguardare».

Il villaggio globale

Al villaggio globale c’è il “decano” dei migranti, Bahran il curdo, voce profonda e faccia che sembra intagliata nel legno della sua falegnameria, da vent’anni al lavoro per accogliere quelli come lui. È qui dal luglio del ‘98, era sulla bagnarola del primo sbarco, quello da cui tutto nacque. E ci sono una troupe televisiva greca, due turisti orientali e una coppia nordica di chissà dove, biondi entrambi. Le botteghe artigiane sono tutte chiuse – la magliaia di Herat, il vasaio di Kabul gli aquiloni di Islamabad – ma i colori non sono sbiaditi: insegne, arcobaleni della pace, murales, persino il vascello di legno colorato, quello da cui è caduto un pezzo («l’abbiamo riattaccato in due minuti, i bambini giocano e rompono, è normale, quello che non è normale è che ne abbiano voluto fare un simbolo di degrado, poveretti»), tutto sembra in pausa, pronto a ripartire. I laboratori producevano piccole cose, ma con mani sapienti: oggetti in legno, ricami, aquiloni, c’è persino una cioccolateria, ma le chiavi di quasi tutto ce l’ha il presidente della cooperativa che li gestiva, che è uno degli indagati. Il capolavoro è la fattoria didattica, una meraviglia a cui si stenta a credere. Gervasi: «Qui abbiamo investito i 2 milioni di euro destinati ai centri storici, era un terreno abbandonato». Ci sono i ricoveri per gli animali, gli alveari, persino un ponte e un laghetto. Un ragazzo di colore lavora di zappa, e nella stalla ci sono gli asinelli: «Torneremo ad usarli per la raccolta differenziata, tra un po’ firmeremo la convenzione», promette Gervasi.

Il sogno distrutto e la speranza

«Dobbiamo tornare alle origini – dice il vicesindaco – alla prima accoglienza, l’accoglienza dolce. E ai piccoli numeri, come nei paesi vicini, Camini e Stignano, e anche a Gioiosa superiore: la mamma è in difficoltà, ma i figli funzionano ancora. Qua abbiano tantissime case a disposizione. Bastano una decina di famiglie con bambini e potremmo riaprire la scuola». Una piccola pausa, davanti alle botteghe chiuse: «Abbiamo letteralmente distrutto un sogno, anche se forse dovevamo proprio andare a sbattere la testa per capire fino in fondo la grandezza di quello che rischiamo di perdere». Ma davvero, chiediamo, qui a Riace c’è chi all’accoglienza preferisce il nulla, e quello che il nulla porta con sé, cioè miseria e ‘ndrangheta? Si può davvero fino a questo punto remare contro i propri interessi? Gervasi per un attimo chiude gli occhi, poi li riapre: «Sai cosa credo? Che ci si è spinti troppo oltre. Tutto è iniziato da quando Mimmo è entrato in quella famosa lista della rivista americana, quella degli uomini più potenti del mondo: tutti hanno pensato che qui giravano soldi, si sono avvicinati in troppi, e credimi si capisce subito chi viene a fare affari e chi vuol davvero aiutare. Però è vero, l’alternativa è il nulla. È una strada da cui non si torna indietro, e su questo non c’è nessuno in paese che ti dirà il contrario, anche la minoranza è d’accordo, e a maggio chiunque sarà eletto la percorrerà. Lucano è stato usato, magari pagherà, ma con lui paga tutto il paese, che ha perso settanta posti di lavoro. Agivamo ai limiti della legalità? Credimi, è impossibile evitarlo, per semplificare le cose. Certo da un Salvini ministro un determinato atteggiamento te l’aspetti, da Minniti no. Ma stai sicuro che resteremo il paese dell’accoglienza, quella fatta col cuore e non col portafoglio».

Sindaco in esilio

Al circolo dei pensionati di Caulonia, Mimmo Lucano confabula con Ilario Ammendolia, ex sindaco locale e vecchia anima della sinistra locridea. L’esiliato riceve lì i giornalisti, dal vivo o per telefono, chi scrive è l’ultimo prima di pranzo. “Mimmo u curdu” ha l’aria stanca, ma davanti al registratore si scioglie («ogni tanto parlo in dialetto, tu capisci vero?») e parte dall’inizio, dallo sbarco del ’98, quello di Bahran il curdo: i primi migranti ospitati, l’aiuto del vescovo Bregantini, la Casa del pellegrino, i primi progetti, l’apertura delle case abbandonate dagli zii da anni emigrati in Australia, cose note. «La realtà di Riace – confessa a un certo punto – ora non la capisco più nemmeno io. Gli avvoltoi sono arrivati a partire dal 2008 o 2009, ma io penso sempre che l’unica forma di accoglienza vera e umana sia il villaggio globale. Credimi, far dormire e mangiare le persone non costa quasi nulla. I soldi sono uguali per tutti ovunque, 35 euro a persona, e io non ne potevo più di vedere gente venire a farsi i cazzi suoi. Come giustificano quei 35 euro al giorno? Con le consulenze? Ma per favore. Io avevo capito benissimo cosa stava accadendo, avevo pure azzerato la Giunta a suo tempo. Ma anche adesso che stanno chiudendo tutto Riace può continuare ad avere la sua autosufficienza, e certo non farei più l’errore di affidare gestioni economiche a chi punta solo ai soldi». I soldi appunto, pare che ne manchino tanti, 2 milioni di euro, e pure di associazione a delinquere dovrà rispondere, Lucano. Lui allarga le braccia: «È stato tutto così caotico, dicono che abbiamo fatto una distrazione di fondi. I magistrati se vorranno arriveranno alla verità. Io non ho fatto niente. E, ripeto, se qualcuno attraverso me si è arricchito… Non so, io non ho più niente e non voglio niente. Mia moglie ha perso tutto, anche le illusioni, e lei è figlia di pastori poveri, ed è dovuta andar via. Tu pensi che non posso farmi eleggere alle Europee se voglio? Certo che posso, dovrei anzi, assicurerei un futuro sereno a me e ai miei figli. Ma non lo voglio fare, e non lo farò. Quello che io sognavo è il borgo incontaminato, lontano dal consumismo, la Calabria che nessuno conosce e che dà a tutti lezioni di umanità». E invece, proprio dal suo borgo, è partita quella che per Lucano è la più infamante delle accuse, la prima forse in ordine di tempo, quella da cui tutto potrebbe aver avuto origine. La pronuncia come una parolaccia, è il suo chiodo fisso e si vede: «Non sapevo neanche cosa sia, la concussione. Ma io non l’ho fatta, l’ho subita, hai capito? L’ho subita», e quasi lo grida, Mimmo Lucano. E qui bisogna fare un passo indietro, di nuovo a Riace.

Mirella la rumena

Mirella ha un’età indefinibile, è bionda e non sorride mai. È la moglie del bottegaio di Riace, è in Italia da molti anni. Pochi concetti, tutti chiarissimi e ripetuti a chiunque abbia voglia di ascoltarli, e mai – mai – una parola cattiva su Mimmo Lucano. L’italiano è imperfetto, e forse rende anche meglio così: «Macchè Salvini, sono loro che non sapevano gestire. Era bello, ora è tutto abbandonato. Lucano non c’entra, di molte cose non sapeva niente. Tutta colpa di Lemlem, voleva pagare con bonus per prendere da bere, la birra, e voleva le fatture come se prendeva detersivi. Lei è in Italia da 10 anni, lei non ha diritto ai bonus. Lei comprati i palazzi nel suo paese. Partiva da qua con dieci valigie. Becky era amica mia, è andata via da Riace perché lei non la voleva qua. Se non c’era lei andava tutto bene. Lei ha rovinato tutto. Lui non c’entra niente, la gente si è comprata macchine e ville e lui neanche si rende conto di niente. E invece guarda, hanno fatto mandare via lui e non lei. Dovevano lasciare lui in paese non lei. Lui è buono. Noi siamo andati alla Finanza. Tutto è partito dalle nostre denunce. Io spero che portano via lei, che fanno giustizia, qui i migranti se ne sono andati via perché c’è lei. Lei è qui, cammina e non saluta nessuno. Come padrona, tutto alle spalle di Mimmo». Per gli smemorati: Becky Moses è la giovane nigeriana morta nel gennaio scorso nel rogo dell’infame tendopoli di San Ferdinando (è ancora là, mentre l’accoglienza a Riace non c’è più). Lemlem Tesfahun, 32 anni, etiope, è l’attuale compagna del sindaco Lucano, anche lei indagata.

Realtà e utopia

«Certo, Lemlem… – sbotta Lucano – devono cercare anelli deboli per colpirmi. Io vivo per i fatti miei, non è vero niente. Quella Mirella è la moglie di uno che ha un negozio, so che è andata a raccontare delle cose alla Guardia di Finanza. Lei è la terza moglie del padrone, e sai che facevano? Volevano obbligare gli immigrati che andavano a comprare nel loro negozio con i bonus, a pagare prima che arrivassero i soldi. Ecco la concussione, ecco perché sono io che in realtà l’ho subita. Questi in realtà volevano i migranti sono per interesse, in realtà ci disprezzano. Io ho parlato con il gip, gli ho raccontato anche altre cose (irriferibili, ndc), spero che vadano a fondo di questa storia». Mimmo u curdu fa una pausa, sembra guardare lontano: «Lo Stato. Ha azzerato tutto, non ci ha pagato neppure il dovuto, neanche il saldo del 2017. Che altro ti devo dire? Io sono sicuro che ci sarà giustizia, massimo rispetto comunque, facciano quello che vogliono. Intanto hanno chiuso le indagini, vediamo se mi fanno tornare a Riace. Ci sono ancora speranze, sai? Mi ha chiamato don Maffeis della Cei (direttore dell’Ufficio comunicazioni sociali, ndc), a me basta un progetto di pochi soldi per fare accoglienza. Mangiare e dormire costano pochi euro, te l’ho detto no? Il borgo incontaminato, lontano dal consumismo…».

La mano tesa al prossimo, senza nulla a pretendere: davvero, la più umanitaria delle utopie. Per Riace e per il mondo intero, chissà.

 

 

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