Un compasso, l’occhio e una squadretta triangolare: tre simboli massonici. Impressi sulle confezioni di cellophane e nastro da imballaggio che contenevano dieci “panetti” di cocaina purissima. Dieci chili di “roba” trovati, il 20 settembre del 2019, sull’auto di un trentenne di Africo, Domenico Morabito, fermato dalla polizia stradale alla svincolo di Rende dell’autostrada del Mediterraneo.
L’uomo era alla guida di una Bmw partita dalla provincia di Reggio Calabria e diretta presumibilmente nell’area urbana di Cosenza. Lo strano stemma di matrice esoterica è subito apparso agli investigatori come una sorta di “scudetto” di riconoscimento fissato su ogni pacchetto di stupefacente.
Domenico Morabito non ha spiegato dove fosse diretto ma ha solo ammesso la responsabilità della detenzione della droga. Tutto qui, non una parola in più. Nel perfetto stile del “criminalmente corretto”.
Il pm Margherita Saccà l’ha spedito dritto davanti al gip, Manuela Gallo, che ha fissato l’udienza per la celebrazione del rito abbreviato.
Il rito alternativo, richiesto dall’imputato che è difeso dall’avvocato Luca Acciardi, gli ha consentito di ottenere la riduzione di un terzo della pena edittale. E ieri Morabito è stato condannato a sei anni e sei mesi di reclusione perchè le circostanze generiche sono state valutate equivalenti a quelle aggravanti.
Considerata la quantità della “coca” sequestrata non certo destinata all’uso personale, è apparso chiaro – a investigatori e pubblico ministero – che l’imputato fosse in effetti un mero “trasportatore” del carico. Il fatto che non abbia spiegato dove fosse diretto ha impedito agli inquirenti di compiere ulteriori sortite. Il “corriere” pagherà il suo conto con la giustizia, ma tutto il mondo ipoteticamente nascosto alle sue spalle rimarrà intonso.
E non si tratta certo di un mondo massonico. Già, perché nessuna obbedienza massonica, pur se “deviata”, apporrebbe mai le proprie insegne su un carico di “polvere bianca”. La spiegazione della presenza dei “simboli” potrebbe essere più pratica che esoterica: l’intero carico di cui faceva parte la “coca” sequestrata a Rende era contrassegnato con compasso e triangolo già dai produttori sudamericani o messicani che l’hanno spedito in Europa. Spesso i narcos – come dimostrano decine di inchieste condotte dalla Dea statunitense negli ultimi tre lustri – usano “marchiare” il loro prodotto: per seguirne la sorte, garantirne la qualità e differenziarlo da quello dei “cartelli” rivali.
E che esista un carico in giro per la Calabria contraddistinto dai simboli massonici lo conferma un altro sequestro, avvenuto meno di un mese dopo quello di Rende, in un’altra area della regione. Il 16 ottobre dello scorso anno, infatti, in un garage di Reggio, è stata la Guardia di Finanza a trovare un “panetto” di un chilo e duecento grammi di “coca” con il medesimo “stemma” di riconoscimento.
Era nascosto tra mitragliette, fucili ed esplosivo. Considerazione finale di tipo logico-deduttivo: la ’ndrangheta ha importato una partita di cocaina dall’altra parte del mondo facendola arrivare via mare nel nostro Paese. In quale porto? Non lo sappiamo. La “roba” – questo è invece certo – è stata messa in circolazione per fare cassa. Dieci chili qua, dieci chili là, come prevede lo sperimentato copione dei narcos nostrani.
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