Dal fronte del porto a quello del virus. Il fil rouge che dipana l'impegno di Irene Nasone collega l'emergenza sbarchi di un tempo a quella attuale del Covid-19. Irene era una dei volontari che accoglieva nella nostra città i profughi salvati in mare. Oggi l'esperienza è ben più drammatica e si svolge molto lontana dalla nostra città. Tanti i punti in comune, il rischio latente di un contagio che incombe sul desiderio di porsi al servizio. Mascherina, tuta e guanti da indossare sotto il tendone della protezione civile al porto, stessi “dpi” ma per combattere un'insidia decisamente maggiore nella provincia di Bergamo: «Sono specializzanda in medicina d'emergenza all'Istituto Clinico Humanitas e da cinque mesi lavoro nel pronto soccorso di una struttura che la settimana scorsa è diventata ufficialmente un “ospedale covid-19”. In pochi giorni hanno trasferito tutti i pazienti ricoverati per far posto ai pazienti positivi al coronavirus, riadattando anche i reparti di nefrologia, urologia e ortopedia. Il pronto soccorso oftalmico - spiega la dottoressa reggina - è diventato un reparto di terapia sub-intensiva gestito dagli anestesisti». Il suo racconto è uguale a quello di tanti altri operatori impegnati nella lotta al male: «Si lavora senza sosta, la scorsa notte in pronto soccorso non avevamo più barelle libere, avevamo riempito perfino il corridoio. I reparti erano tutti pieni quindi non potevamo nemmeno ricoverare. Ho visto pazienti spaventati, più del solito, anche perché i loro parenti non possono entrare in ospedale per star loro accanto. Quella notte il momento più angosciante è stato quando abbiamo dovuto dire attraverso un telefono: “Suo padre sta peggiorando, non possiamo fare più niente per lui». Un bollettino di contagiati di cui Irene rifiuta, unendo grinta e coraggio, l'appiattimento numerico: «Quello che sentiamo alla tv suona ormai come un elenco di numeri. Non sono numeri, ci sono storie dietro quei numeri». Come storie c'erano dietro i volti di nigeriani, maliani, siriani, capoverdiani e tanti altri sventurati strappati al mare e adagiati sulla terra. Quella di allora è stata una palestra che sembrava dura sotto il sole cocente di Reggio; ma che alla luce dell'emergenza attuale adesso sembra niente: «Noi operatori sanitari indossiamo i dispositivi di protezione individuale, quindi doppio camice chirurgico, doppi guanti, calzari, cuffia, maschera e visiera. Una volta indossati non possiamo toglierli per almeno 8-12 ore, non possiamo bere, andare in bagno o anche semplicemente soffiarci il naso. Il lavoro diventa ancora più faticoso così: la mascherina stringe e fa male e il camice ci limita nei movimenti e fa sudare». Rimane come retropensiero la lontananza dei genitori, degli amici e dei parenti lontani: «Quando a fine turno mi svesto noto che sul viso sono rimasti dei segni, allora per sdrammatizzare mando una foto alla mia famiglia scrivendo loro che sto diventando vecchia e saggia perché mi escono le rughe. Al telefono sento i miei genitori sempre molto preoccupati, mia madre a volte piange, mio padre dice che sono andata a combattere al fronte. In questi giorni sento ancora di più il peso della lontananza dai miei affetti, dalla mia famiglia. La nostalgia, però, lascia il posto a quello che è un senso forte di protezione perché so bene che se fossero vicini a me sarebbero maggiormente esposti al contagio, come lo sono io in ospedale». Infine un pensiero ai coetanei distanti, non sul piano fisico ma valoriale: «Quando torno a casa ed accendo la televisione o mi collego sui social mi sembra di vedere un altro mondo, lontano dal mio. Persone preoccupate di non poter più andare al bar o in palestra o a ballare il sabato sera perché assuefatte al principio che il proprio benessere e la propria comodità vengano prima del bene comune. Le persone si annoiano, io invece avverto la stanchezza ma continuo perché più forte di quella è il senso di responsabilità. È strano accorgersi che tutto si ferma e tu, invece, vai più veloce». Andrà tutto bene grazie ad esseri umani come Irene.