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Cellulare in carcere grazie ad agente corrotto, così comunicava con l'esterno il boss di Reggio

Era grazie alla corruzione di un agente di polizia penitenziaria e al costante supporto dei sodali Antonino Barbaro, Antonino Filocamo, Salvatore Paolo De Lorenzo, Paolo e Stefania Pitasi, nonchè di altri detenuti, che Maurizio Cortese, indicato dagli inquirenti come il capo della cosca Serraino di Reggio Calabria, colpita stamane da 12 arresti con l’operazione Pedigree, aveva a disposizione telefoni cellulari e alcune schede «citofono» con le quali riusciva a comunicare con l’esterno, impartendo disposizioni sia alla moglie che ad altri sodali.

Lo stesso Cortese, nel corso di una conversazione intercettata nel mese di aprile 2019, ha spiegato come fosse riuscito ad introdurre all’interno della casa circondariale l’apparecchio telefonico e nel fare riferimento a «guardie corrotte» affermava che uno degli agenti penitenziari, non identificato, dietro pagamento di 500 euro, si era prestato a consegnargli abusivamente il telefono. L’apparecchio cellulare era stato rinvenuto, il 9 aprile 2019, nel corso di una perquisizione della cella di Cortese Maurizio. Nel maggio 2019 - dopo il sequestro del telefono e il trasferimento in un altro carcere - il boss tornò utilizzare il metodo di comunicazione attraverso i più tradizionali «pizzini».

Nonostante fosse detenuto nel carcere di Torino, quindi, Maurizio Cortese riusciva a gestire gli affari illeciti della cosca attraverso i colloqui con la moglie, Stefania Pitasi, e Antonino Filocamo , mediante un costante rapporto epistolare con gli affiliati, in particolare con la moglie, nonchè con l’utilizzo di dispositivi cellulari introdotti abusivamente all’interno della struttura carceraria e infine avvalendosi del servizio di messaggistica «e-mail» attivo nella struttura di detenzione.

La moglie del boss, scrivono gli inquirenti, «ha operato costantemente come postina della cosca guidata dal coniuge Maurizio Cortese, trasmettendo «imbasciate» e informazioni essenziali per l’operatività del gruppo mafioso e per l’esercizio della funzione di comando del marito. Quest’ultimo, pur essendo detenuto, «ha continuato a svolgere le sue funzioni di capo cosca, impartendo direttive dal carcere per eseguire estorsioni e pianificare intestazioni fittizie di beni, grazie innanzitutto ai colloqui con la moglie, alla corrispondenza epistolare ed elettronica e ai telefoni cellulari clandestinamente introdotti in cella».

«Nell’ambito di questa indagine, che viene avviata dopo l’arresto di Maurizio Cortese nel 2017, è confluita parte di un’inchiesta precedente relativa sempre allo stesso contesto criminale in cui erano state registrate alcune conversazioni dalle quali emerge il ruolo dell’arrestato Domenico Morabito come 'uomo di rispetto'. Abbiamo registrato, in particolare, l’interesse di Morabito come 'collettore di voti' dell’ex consigliere regionale Alessandro Nicolò». Lo ha detto il procuratore della Repubblica di Reggio Calabria, Giovanni Bombardieri, durante la conferenza stampa per illustrare i dettagli dell’operazione «Pedegree» contro le cosche di 'ndrangheta Serraino e Libri.

In merito ai rapporti con la politica e con l’ex consigliere regionale Nicolò, già arrestato nell’ambito dell’inchiesta "Libro Nero" e tuttora detenuto, «si fa riferimento - ha spiegato il procuratore Bombardieri - alla necessità di un incontro tra lo stesso Nicolò e Domenico Sconti, personaggio all’epoca già condannato e il cui rilievo criminale era ben noto. Non abbiamo contezza che l’incontro sia effettivamente avvenuto, ma solo della fase preparatoria». Con l’inchiesta «Pedigree», secondo il questore Maurizio Vallone, la Squadra mobile ha colpito «una cosca dedita in modo particolare alle estorsioni».

«È una registrazione - aggiunge Bombardieri - delle dinamiche criminali nell’area cittadina che fa seguito all’operazione 'Malefix' di qualche giorno addietro e ricostruisce gli interessi delle varie cosche nelle diverse aree della città. Si tratta di un’importante attività investigativa che si è sviluppata in un periodo recente. Siamo riusciti a monitorare Maurizio Cortese, che dal carcere di Torino riusciva a dare indicazioni alla cosca attraverso cellulari illecitamente introdotti nella casa circondariale del capoluogo piemontese. Non siamo riusciti a individuare l’agente della polizia penitenziaria corrotto, ma è sicuro che dal carcere Cortese dava ordini ai suoi affiliati per quanto riguarda le estorsioni. Di lui ci ha parlato anche il collaboratore di giustizia Pino Liuzzo per il quale Cortese era non solo intraneo alla cosca Serraino ma nell’ultimo periodo aveva una sua cellula propria. Lo stesso boss Nino Labate lo ha definito un 'numero uno'. Maurizio Cortese, infatti, intratteneva rapporti con la cosca Labate e con i De Stefano-Tegano attraverso Gino Molinetti».

Nell’ambito dell’inchiesta,gli uomini del capo della Mobile Francesco Rattà sono riusciti a fare luce sugli attentati al "Mary Kate», il bar sul viale Calabria incendiato l’anno scorso due volte in un mese. Secondo la ricostruzione della Procura, pur essendo un esercizio commerciale di proprietà di un suo presunto affiliato, il danneggiamento era stato deciso dal boss Cortese per favorire un altro bar della zona. «Quello che ci sconvolge - ha concluso il Procuratore Bombardieri - è l’episodio di un professionista, un dentista, che 'avvicinato' dalla cosca preferisce rivolgersi al boss Paolo
Pitasi, genero di Cortese, piuttosto che allo Stato». Durante le perquisizioni, la Squadra mobile ha sequestrato due pistole illecitamente detenute da un indagato e una grossa somma di denaro.

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