“Racconto la mia storia perché non voglio che un altro possa morire solo come mio padre: lui non è morto per Covid, pur avendolo contratto in ospedale, ma per le sue patologie pregresse, solo per una rigida applicazione del protocollo. Che umanità è? Che Stato è uno che fa certe scelte sacrificando i più deboli?».
La signora Maria (la chiameremo così perché vuole rimanere in anonimato per dare più senso alla sua storia e non personalizzarla) è una figlia che in soli sette giorni ha visto morire il padre per cause ancora in corso di chiarimento. Una storia come tante altre di quelle raccontate in questi lunghi mesi di pandemia, ma con alcuni aspetti che mettono in grave dubbio i protocolli applicati dalle strutture sanitarie e dai triage Covid 19.
Il nonnino protagonista di questa storia ha 80 anni e per tutti questi mesi è stato accudito e protetto in casa: soffre di diabete, ma sta bene, lucido, sorridente. Un vecchietto arzillo e reattivo. Il 5 dicembre un ictus gli provoca la semiparesi della parte sinistra: non è grave, piccole ischemie secondo la prima Tac eseguita in una struttura privata, e il nonnino resta a casa per altri due giorni. Ma ha problemi di deglutizione, e il consiglio medico è di trasferirlo in ospedale.
«La prima cosa che mi sento di dire - dice Maria - è che con questo Covid i medici di base si rifiutano di venire a casa: ma portare gli anziani in ospedale li espone a un rischio troppo grande!».
Viene scelta per il ricovero una struttura privata in cui non ci sono casi di Covid: è il 7 dicembre e il nonnino, prima del ricovero, fa il tampone e risulta negativo. Maria lo lascia alla porta, pur essendosi offerta di fare il tampone anche lei ed entrare in ospedale con il padre, ad accudirlo senza uscirne più. Il protocollo non lo permette, però. Il nonnino parla, collabora, è lucidissimo, saluta la figlia con un sorriso quando lei gli promette: «Vengo presto a prenderti!».
Venerdì 11 dicembre la signora, mentre si trova a lavoro, riceve la telefonata della Prefettura: suo padre è positivo e deve essere trasferito al reparto malattie infettive dell'ospedale cittadino. Qui comincia il calvario: il nonnino rimane per ore al triage e nonostante la figlia riesca a contattare telefonicamente un sanitario pregandolo di somministrare l'insulina, la risposta è secca: «Qui non si fa terapia, signora. Il protocollo non lo permette».
La cosa strana è che l'anziano aspetta per ore di essere nuovamente sottoposto a tampone (nonostante fosse stata la Prefettura ad avvisare la famiglia, al mattino, della sua positività) e non fa la terapia per le altre patologie. Il nonnino si addormenta e rimane in quello stato per tre ore. A mezzogiorno del 14 la notizia: «Le comunichiamo il decesso di suo padre non per Covid ma per le altre patologie».
Per Maria ai sensi di colpa per averlo ricoverato si aggiunge la rabbia per un sistema che lei definisce «disumano e ingiusto». Si è perso tempo in attesa di un tampone (il secondo) che non era necessario? E perché al triage i malati non possono continuare a fare le normali terapie per le altre patologie? Il quadro clinico si aggrava irreparabilmente per il rispetto di un incomprensibile protocollo?
Maria non ha dubbi: il padre ha contratto il Covid in ospedale: “Ci siamo tutti sottoposti a tampone per due volte e siamo tutti negativi. Non siamo stati noi a contagiarlo». Ma la sua preoccupazione, adesso, è per gli altri ammalati di Covid, di cui «tutti si dimenticano le altre patologie, facendoli diventare un numero Covid. Vengono trascurate le altre patologie - dice con un filo di voce - e io non posso permettere che accada ad altri quello che è successo a mio padre. Entrato sorridente in un ospedale, è uscito da un altro, in un sacco bianco».
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