Non è finita. Si riapre il processo d’appello Gotha 3 a Reggio Calabria per Rosario Pio Cattafi, che è andato inspiegabilmente “in sonno” per cinque anni dopo il rinvio della Cassazione e adesso sembra giunto ad una svolta. Un processo che serve a definire un passaggio cruciale: se sull’avvocato barcellonese c’è il sigillo mafioso quantomeno fino ad un determinato momento storico, cioé fino al 2000.
La Corte d’appello reggina ha deciso infatti di riaprire il dibattimento «… ritenuta l’assoluta necessità, sulla scorta di quanto prodotto e richiesto dalla parte civile, di escutere il collaboratore di giustizia D’Amico Carmelo al fine di una corretta ricostruzione dei fatti». Cosa che sarà fatta il 22 settembre prossimo. Era stato l’avvocato di parte civile Fabio Repici, nelle scorse udienze, come rappresentante dell’Associazione nazionale familiari vittime della mafia, a chiedere tra l’altro che venisse ascoltato l’ex boss barcellonese di primo piano, e oggi pentito, Carmelo D’Amico. Che su Cattafi, a suo tempo, ha raccontato parecchie cose.
In pratica quello di Reggio Calabria è un procedimento che, dopo il rinvio della Cassazione dell’ormai lontano 2017, in questi anni è stato sempre aggiornato tra impedimenti dei giudici e degli avvocati, e per i problemi legati alla pandemia. E adesso, ha sostenuto alle scorse udienze il sostituto procuratore generale Giuseppe Adornato, è un processo in cui sarebbe addirittura maturata la prescrizione, tesi però contestata dall’avvocato Repici. Nel 2017 la Cassazione decise sul troncone dell’operazione antimafia “Gotha 3” sulla famiglia barcellonese che riguardava oltre a Cattafi anche il boss Giovanni Rao, e il “cassiere” di Cosa nostra barcellonese Giuseppe Isgrò. Per loro due, con il rigetto dei ricorsi difensivi, le condanne d’appello decise a Messina nel novembre del 2015 diventarono definitive: 5 anni e 8 mesi per Rao, 7 anni e 6 mesi per Isgrò. Per Cattafi invece i giudici della V sezione penale dichiararono inammissibile il ricorso della Procura generale. E questo significò che cadeva definitivamente il ruolo di “capo” della mafia barcellonese che gli era stato attribuito in precedenza dall’accusa. Poi stabilirono che bisognava rifare tutto in relazione alla condanna decisa dalla Corte d’appello di Messina per la sua appartenenza all’associazione mafiosa barcellonese solo fino al 2000, statuendo cioé che dopo quella data non c’erano elementi sufficienti a supporto dell’accusa.
Nella sua richiesta di riaprire il processo a Reggio Calabria depositando l’atto delle conclusioni di parte civile, nel gennaio scorso, l’avvocato Repici aveva tra l’altro inserito due elementi di grande rilevanza: una nota della Dda di Palermo, e un verbale di dichiarazioni del pentito Carmelo D’Amico.
Nel primo atto la Dda di Palermo dava conto di una relazione di servizio di un agente penitenziario, dal contenuto emblematico: nel corso del processo sulla “trattativa Stato-mafia” l’agente aveva sentito testualmente il capo di Cosa nostra Totò Riina affermare di conoscere Cattafi, poiché aveva «… mostrato di ben conoscere il Cattafi, chiamandolo “Zio Saro” e definendolo un trafficante di armi… ».
Nel secondo atto, il verbale del pentito Carmelo D’Amico, il collaboratore chiamava in causa Cattafi per la vicenda del medico Attilio Manca, il brillante urologo barcellonese “suicidato” a Viterbo l'11 febbraio del 2004, con i familiari che gridano da anni della sua morte ordinata da Cosa nostra, non soltanto barcellonese, perché curò Bernardo Provenzano per i suoi problemi alla prostata. E D’Amico, a settembre, sarà ascoltato dai giudici probabilmente anche sul caso Manca.