Era il 4 agosto 2020 quando Carmelo Bersano fu arrestato per avere ucciso il cognato Antonio Pupo e ferito il nipote Michele Pupo, con l’aggravante della premeditazione. Ora la vicenda giunge a sentenza, con la condanna dell’aggressore a 30 anni di reclusione il quale, proprio a seguito della contestazione dell’aggravante, non ha potuto accedere al rito abbreviato che non può applicarsi ai reati puniti con la pena dell’ergastolo, quali l’omicidio premeditato. Bersano, su richiesta del sostituto procuratore Elio Romano, è stato rinviato a giudizio innanzi alla Corte d’Assise di Palmi per rispondere anche di ricettazione dell’arma utilizzata per l’omicidio e della detenzione dei proiettili. L’avvocato Mariangela Borgese, difensore di Bersano, nel corso dell’arringa difensiva ha sostenuto l’insussistenza dell’aggravante della premeditazione deducendo che non sarebbe stato Bersano a tendere un agguato bensì Pupo, all’una di notte, a contattarlo per chiedergli un incontro con tre telefonate. Dunque Bersano si sarebbe recato all’appuntamento non già con l’intenzione di uccidere o ferire, ma solo perché richiesto insistentemente dal cognato; poi sarebbe stato costretto ad usare l’arma per difendersi credendo di essere caduto in un agguato, poiché si sarebbe trovato in un posto buio ed isolato e avrebbe visto un’altra autovettura con persone all’interno. Fra l’altro ed in quel momento sarebbe stata in corso tra i due una forte lite per motivi familiari. Leggi l'articolo completo sull'edizione cartacea di Gazzetta del Sud - Reggio