La condanna di Mimmo Lucano a 13 anni e 2 mesi di reclusione nel processo “Xenia” ha destato com’è noto un autentico terremoto di polemiche. Molti commenti, seppur rinviando alla lettura delle motivazioni, hanno posto l’accento sulla diversità tra la richiesta di condanna formulata dalla Procura – 7 anni e 11 mesi – e la pena inflitta dal Tribunale di Locri (presidente Fulvio Accurso, giudici Cristina Foti e Rosario Sobbrio). A leggere il dispositivo, la condanna di Mimmo Lucano è arrivata per reati contro la pubblica amministrazione, la pubblica fede e il patrimonio, partendo dal reato di associazione per delinquere finalizzata a “commettere un numero indeterminato di delitti”, come falso in atto pubblico e in certificato, truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche, abuso d’ufficio e peculato. I pubblici ministeri di Locri hanno considerato questi reati «esecutivi di un medesimo disegno criminoso», e in questi casi per calcolare la pena si prende la pena base (quella inflitta per il reato più grave) e la si aumenta fino al triplo. Il reato più grave tra quelli per i quali Lucano è stato condannato è il peculato, che prevede da un minimo di 4 a 10 anni di carcere. Il Collegio penale ha invece separato due “disegni criminosi”, raddoppiando le pene base e aumentando di conseguenza l’entità della sanzione. Un primo gruppo di reati ha portato a una condanna a 10 anni e 4 mesi. Il secondo, ad altri 2 anni e 10 mesi. All’ex sindaco di Riace, e ad altri imputati condannati, non sono state concesse le attenuanti generiche, che avrebbero portato ad uno sconto di pena. Le difese avevano invece evidenziato l’insussistenza di elementi dimostrativi dell’operatività della presunta associazione per delinquere, senza la quale «sarebbe caduto l’intero impianto accusatorio». Leggi l'articolo completo sull'edizione cartacea di Gazzetta del Sud - Reggio