Reggio

Venerdì 22 Novembre 2024

‘Ndrangheta, l'intervista a Emanuele Mancuso: "Comprano i processi. I soldi della droga sono sotto terra"

"Dopo aver intervistato il superboss della Piana di Gioia Tauro, Pino Piromalli, Klaus Davi ha “intercettato” il pentito della ’ndrangheta vibonese, Emanuele Mancuso, per un’altra lunga intervista. Il giornalista italo-svizzero era affiancato da Alessio Fusco, inviato di Newsmediaset. Emanuele, eccoci. Cominciamo con la prima domanda: vorrei chiederle cosa l’ha spinta a pentirsi. Perché si è rivolto alla giustizia? «Allora, io ho deciso di collaborare con la giustizia perché stava per nascere mia figlia. Sette giorni prima che nascesse la bambina». L’ha fatto per lei, insomma. Mi racconti un po’: che cosa succedeva? Quali erano gli interessi prevalenti della famiglia Mancuso? «Gli interessi principali sono il narcotraffico dall’America del sud, dall’Argentina, dalla Bolivia, dalla Colombia e dall’Ecuador. Trasportano tonnellate e tonnellate di cocaina verso l’Italia, e poi ci sono gli affari petroliferi, i grandi appalti e numerosi investimenti al Nord Italia nell’edilizia». Come funziona questo “metodo”, questo “metodo” mafioso? Lei era dentro a questo sistema, come funziona? «In che senso?». Lo spostamento di droga: da dove parte, ci sono incontri, contatti con le persone che stanno là, con gli imprenditori del posto? Oppure è un sistema mafioso – si va da queste persone e si minacciano –? Vorrei capire un po’ meglio. «Per quanto riguarda soprattutto gli appalti?» Per quanto riguarda gli appalti ma anche per la droga che viene portata su, da quello che mi sembra d’aver capito... «Metodi per trasportare la cocaina dal Sudamerica ce ne stanno tantissimi ma cambiano soprattutto perché sicuramente cambiano i modi di indagare dalle Procure. La ’ndrangheta si evolve, è in continua evoluzione, però “metodi” ce ne stanno tantissimi». Invece per quanto riguarda gli appalti si va dagli imprenditori con ricatti, minacce... o che altro? «Assolutamente no! È difficile che capitasse che l’imprenditore subisse delle violenze; partiamo dal presupposto che ormai la ’ndrangheta è talmente forte che decide direttamente lei quando fare la gara d’appalto e cosa costruire. L’imprenditore ultimamente che cosa fa? Prima ancora di partecipare a una gara d’appalto paga direttamente la cosca. Le cosche, cioè, non hanno nemmeno bisogno di minacciare perché già l’imprenditore è messo lì dalla cosca direttamente. Perché la ditta è della cosca o l’imprenditore, quando arriva, sa già che deve pagare, quindi non si arriva nemmeno a minacciare o a fare gli attentati». Per quanto riguarda il narcotraffico, invece, la droga arrivava al porto di Gioia Tauro e poi veniva “girata” in diversi modi? «La droga arrivava sia nei porti di Rotterdam e Anversa e poi faceva anche scalo a Gioia Tauro, a Livorno e a Genova. Poi veniva smistata». Quanti soldi porta questo mercato? Nelle casse della famiglia Mancuso davvero c’erano così tanti soldi così come si dice? «Un chilo di cocaina pura – dipende da come concludi l’affare... – ha un prezzo irrisorio in Sudamerica; in Italia si moltiplica per 4 con il taglio arrivi a guadagnare intorno ai 100.000 euro al chilo, quindi un guadagno stratosferico: è un business dove i soldi non li conti più, li devi pesare. E, infatti, numerosi appartenenti alla mia famiglia i soldi li nascondono sotto terra, anzi usano gli escavatori proprio per imballarli, i soldi...». Sì, perché quelli sono soldi in nero: quindi li nascondono perché li devono investire? «Non è questo il problema, è che hanno talmente tanti di quei soldi che o li murano o li mettono sottoterra con gli escavatori; non è la questione che sono in nero, la questione è che ne hanno talmente tanti che non sanno nemmeno che cosa devono farne». È pazzesca questa cosa! «Già. E infatti si comprano anche i processi». In che senso? «Nel senso che c’era un sistema collaudato dove tramite soggetti appartenenti alla massoneria arrivavano ai giudici e in questo modo sistemavano i processi». Quindi si entra anche nei processi? Anche la politica – a questo punto è lecito pensarlo –? «Assolutamente sì: e non solo la politica, ma anche i servizi segreti». Quindi venivano pagati per fare finta di non sapere? «Venivano pagati per aggiustare qualche sentenza; a livello locale e provinciale, la politica è sempre stata in mano ai clan, non è mai cambiato nulla. A livello regionale la stessa cosa, con agganci estesi anche a livello nazionale». Sì, sì, ho capito! Con i soldi si può comprare tutto: dal processo al politico di turno, vero? «Diciamo che da quando la ’ndrangheta è entrata nella massoneria è diventata praticamente potentissima, non ha più confini». Dopo che Luigi Mancuso è finito in carcere tutto questo sistema non si è fermato, è andato avanti. È passato da padre in figlio. Cioè non è che “muore” lì? «Guarda, Luigi Mancuso è stato arrestato nel 2019 mentre io ero già detenuto. Dall’esperienza che ho avuto io posso affermare che la ’ndrangheta è la più difficile da combattere perché è “fondata” su vincoli di sangue, quindi è fortissima, per me difficile che finirà». Posso chiederle una cosa, lei mi diceva che questa non è più la ’ndrangheta degli omicidi... Ma in famiglia ha mai sentito affermazioni come “A questo lo dobbiamo far fuori, adesso sta disturbando davvero troppo”? «Sì, è capitato, certo». Solo detto, o anche fatto? «Anche fatto». Posso chiederle quali personaggi venivano colpiti di più: imprenditori o politici? «Guarda, non so se a queste domande posso rispondere». Ok, passiamo avanti: guerre tra cosche, faide, roba del genere – c’è ancora qualcosa di simile all’interno del territorio, secondo lei? –. «Sì! Ma quando ci sono personalità forti come quella di Luigi Mancuso non ci sono mai guerre perché cercano di andare d’accordo e spartirsi il territorio. È difficile che con una persona come Luigi Mancuso possano succedere guerre. Più di un “soggetto” a livello istituzionale voleva Luigi fuori per mantenere l’ordine tra due cosche: è una convenienza sia per la politica sia per gli imprenditori e sia per il territorio; la ’ndrangheta a livello sociale è potentissima. Lei deve considerare che le persone perbene venivano da me e mi dicevano: “Emanuele, mi trovi un lavoro?” come se io fossi l’ufficio di collocamento; oppure: “Emanuele, mi serve una visita in ospedale” e io gli facevo fare la visita in dieci giorni: ecco cosa è la ’ndrangheta, tu comandi a tutti i livelli. Sì, proprio a tutti i livelli». Emanuele, a lei è cambiata tantissimo la vita: da quando è sotto protezione, infatti, non può fare tantissime cose e deve sempre chiedere il permesso. Credo che lei debba chiedere il permesso anche per vedere sua figlia, vero? «Guarda, la vicenda di mia figlia è qualcosa di vergognoso che uno stato di diritto non può permettersi; lei deve considerare che anche mio padre mi ha cresciuto senza avere la limitazione della responsabilità genitoriale come tutti i miei zii, i miei parenti che hanno figli minori; io che ho collaborato con la giustizia e non ho mai commesso nemmeno un omicidio ad oggi mi ritrovo libero e senza la responsabilità genitoriale, con la limitazione della responsabilità genitoriale: la motivazione è che sono un appartenente al clan. Questa è una cosa del tutto inaccettabile, fuori luogo, inesistente, assurda dopo quattro anni». E sua figlia è con sua moglie? «Mia figlia è con la mia ex compagna che peraltro è imputata di numerosi reati di mafia ed è stata peraltro condannata in primo grado. È un paradosso, posso dire che è un paradosso. Anzi, è più di un paradosso, perché tutti i padri in Italia che escono dal carcere tornano dai propri figli e a nessuno viene limitata la responsabilità genitoriale. Io, invece, che dovrei avere non una marcia in più ma dieci marce in più perché mi sono dissociato dalle cosche, ho testimoniato persino contro i miei genitori, invece che essere premiato perché ho uno stile di vita diverso, subisco la limitazione della responsabilità genitoriale perché appartenente a un clan; una cosa fuori dal normale. Posso vedere mia figlia appena cinquanta minuti in una stanza chiusa». Le chiedo un’ultima cosa: c’è stata una vicenda che mi ha riguardato. Mi racconta com’è andata e cosa poi è stato detto su di me dalla sua famiglia? «Io, dottor Davi, l’ho conosciuta nell’occasione in cui ho avuto un incidente con la macchina nel 2016. Ricordo che lei mi ha chiamato al telefonino e io la invitai a venire all’ospedale di Vibo a trovarmi. E ricordo che appena ha messo piedi allo Jazzolino lei venne prima aggredito, preso a calci e pugni, poi le fu rubata la telecamera; insomma una rapina e in più lei è stato, peraltro, denunciato. Come dire: oltre al danno si è aggiunta pure la beffa. Ricordo che poi io le ho anche rilasciato un’intervista. Successivamente lei è venuto a casa mia, anche più di una volta. E un giorno ricordo che mia madre esclamò: “Questo qua, se torna a casa, se ne va con le gambe all’aria”. Non so se ha capito il senso». Volevano spararmi? «Beh, qualcosa sarebbe successo sicuramente». Una minaccia, insomma. Sono stati abbastanza duri: forse non volevano farmi fuori, ma comunque colpire abbastanza pesantemente. «È normale, perché dava fastidio. Comunque lei veniva con il suo collega Micelotta, andava pure dai miei zii, dai miei parenti, e questa cosa irritava la mia famiglia perché non si voleva apparire, si voleva stare comunque silenti, insomma». Emanuele, se vuole aggiungere qualcosa per me va bene.... «Io vorrei dire a tutti i ragazzi di non credere nella ’ndrangheta, di studiare e di fidarsi tanto della Giustizia e dei Carabinieri o della Polizia; in Calabria c’è tanto bisogno di ragazzi che credano in questo e che non credano nella ’ndrangheta. Nessun fascino, la ’ndrangheta è una cosa che fa schifo».

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