Un vero e proprio “giallo nel giallo” è emerso dal processo di primo grado per l’omicidio del barone Livio Musco, avvenuto la sera del 23 marzo 2013 nello studio della sua residenza di via Valleamena, proprio alle spalle della caserma dei Carabinieri, all’epoca ubicata lungo la discesa che porta a piazza Matteotti. Un efferato delitto che a distanza di nove anni rimane senza colpevoli, dopo la recente assoluzione del nipote Berdj Domenico. Il ricco possidente terriero fu freddato con due colpi d’arma da fuoco che lo attinsero al viso e al collo ma l’arma, una pistola cal. 7,65, non è mai stata rinvenuta nonostante sia stata costantemente ricercata dalle autorità inquirenti, anche a Roma nella residenza del padre, il generale Ettore Musco,e nella casa del fratello della vittima, Ruggiero Musco, perseguendo l’ipotesi secondo la quale l’omicidio del barone sarebbe maturato all’interno della famiglia: tesi certamente suggestiva ma mai riscontrata nemmeno sul piano indiziario. Né è affiorato in seguito un possibile movente che abbia potuto animare l’imputato Berdj nel concorrere all’omicidio dello zio, non essendo comprovata l’esistenza di cointeressenze con un altro imputato, l’imprenditore immobiliare Mazzaferro, sospettato di essere l’autore materiale dell’omicidio per un presunto prestito non restituito, ma poi scarcerato e morto per cause naturali. Il dibattimento, grazie anche al costante e scrupoloso lavoro della difesa sostenuta dall’avv. Antonino Napoli, ha demolito l’intero impianto accusatorio che era stato eretto a carico di Berdj Domenico Musco evidenziandone l’assoluta infondatezza. Leggi l'articolo completo sull'edizione cartacea di Gazzetta del Sud - Reggio