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Corte d'appello di Reggio Calabria: Cattafi era parte della cosca mafiosa di Barcellona

Uomo di fiducia del boss Gullotti e punto di riferimento, è stato condannato a 6 anni di reclusione lo scorso ottobre

Rosario Pio Cattafi

«Non ci sono dubbi» sul fatto che Rosario Pio Cattafi, almeno dall’ottobre del 1993 al marzo del 2000, abbia fatto parte della cosca mafiosa di Barcellona Pozzo di Gotto (Messina), non solo come persona di fiducia del boss Pippo Gullotti (di cui era stato testimone di nozze) ma anche, dopo l’arresto di quest’ultimo avvenuto nel febbraio del 1998, come «riferimento di spicco dell’organizzazione» per gli altri affiliati e storici vertici, «assumendo compiti e rapporti con le Istituzioni deviate e i colletti bianchi». È quanto si legge nelle motivazioni con cui la Corte d’appello di Reggio Calabria (presieduta da Filippo Leonardo) il 6 ottobre scorso ha condannato Cattafi a 6 anni di carcere per associazione di stampo mafioso. Una sentenza, alla luce delle 116 pagine depositate in cancelleria, maturata grazie e soprattutto al contributo dichiarativo di così tanti collaboratori di giustizia che «è davvero arduo accreditare la tesi secondo cui l’imputato sarebbe vittima di un ordito complotto ai suoi danni».

Il secondo esempio, che acclara la «credibilità del narrato di D’Amico», è legato alla morte del dottor Attilio Manca, l’urologo 34enne che Cattafi avrebbe accompagnato, su incarico di un generale dei carabinieri, presso il luogo in cui era rifugiato Bernardo Provenzano, che aveva bisogno di cure urgenti. «Per evitare che si potesse disvelare il rifugio di Provenzano - scrive la corte d’appello di Reggio Calabria nelle sue motivazioni -, Manca è stato ucciso dai servizi segreti. Da qui il «risentimento», riferito da D’Amico alla corte, del cognato di Gullotti, cioè il medico di base Salvatore Rugolo (deceduto nel 2008 in un incidente stradale) che considerava Cattafi «moralmente responsabile» della morte di Manca (avvenuta nel 2004) per i rapporti che aveva con le istituzioni deviate. E ancora, D’Amico raccontò che, nel carcere milanese di Opera, il boss palermitano Antonino Rotolo «gli confermò che Provenzano era stato curato in Francia da Manca, poi ucciso dai servizi segreti». Per la corte è importante anche evidenziare, proprio in riferimento alla morte di Manca, che nel 2004 «non c'erano dubbi sull'intranità alla cosca di Barcellona da parte di Cattafi», andando ben oltre il periodo storico (1993-2000) oggetto di contestazione processuale.

Tra i tanti pentiti, il collegio “valorizza” la figura di Carmelo Bisognano (ex capo del clan dei “Mazzarroti”) che «nel tempo ha fornito ampie, confermative e dettagliate affermazioni in ordine alla partecipazione di Cattafi al sodalizio mafioso». E analogo discorso vale anche per il collaboratore Carmelo D’Amico, che faceva parte dell’ala militare esecutiva del gruppo, «secondo il quale Cattafi aveva il compito di gestire i rapporti, per conto della cosca, con i cosiddetti “colletti bianchi”, pur non essendo lui un colletto bianco, visto che il boss era a tutti gli effetti un uomo d’onore... un associato». D’Amico è stato ritenuto attendibile anche quando ha affermato che «Cattafi era a capo di una potente loggia massonica che, comprendendo uomini politici e personaggi delle Istituzioni e dei servizi segreti, dimostra il livello del personaggio in esame». Due esempi tra tutti: «Cattafi era uno dei pochi sodali a conoscere il luogo dove Nitto Santapaola trascorreva la sua latitanza». Tanto è vero che, all’indomani della cattura dello stesso Santapaola, D’Amico «venne convocato da Gullotti che, su mandato dei vertici di Cosa Nostra, gli affidò, quale killer esperto e fidato, il compito di uccidere Cattafi, sospettato di aver tradito Santapaola di cui conosceva il rifugio». Incarico poi rientrato perché Cosa Nostra scoprì “il vero responsabile” del tradimento.

Nei 6 anni di reclusione inflitti dai giudici di appello calabresi che erano partiti da 9 (poi ridotti di un terzo per la scelta del rito), va ricordato che è compresa anche la condanna a un anno e mezzo di reclusione in ordine alla calunnia commessa da Cattafi per aver falsamente accusato l’avvocato Fabio Repici (parte civile in questo processo) di aver determinato la collaborazione di Carmelo Bisognano, al fine di indurlo a rilasciare nei confronti dello stesso boss alcune dichiarazioni accusatorie. «Tale ultimo delitto - si legge nelle motivazioni - è stato accertato in via definitiva, avendo la Cassazione disposto il rinvio al fine di determinare il trattamento sanzionatorio, dipendente dal giudizio in ordine al delitto associativo». A Cattafi non sono state concesse le circostanze generiche «attesa la gravità dei delitti commessi e in assenza di alcun reale contributo collaborativo, da lui reso, in favore dell’accertamento della verità dei fatti, salvo ovviamente il legittimo diritto di difendersi, proclamando la propria innocenza».

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