Le sbarre le ha conosciute perché a 23 anni è stato arrestato per droga, e sa cosa significa davvero la parola ricominciare. Bruno Palamara, classe 1992, ha giurato che una volta varcata la soglia di quel tempo “congelato” a scontare la sua pena avrebbe fatto qualcosa per tendere una mano. Come? Piantando semi e mettendo in piedi iniziative per agevolare gli incontri fra i detenuti e i loro affetti lontani. E così nasce “41 bus”, che cambiando una vocale, fa tutta la differenza nel mondo. E oggi Bruno ricorda con occhi nuovi gli insegnamenti di papà Giuseppe, di Bova Marina, che ha sempre portato avanti la famiglia facendo l’operaio, collezionando esperienze tra estero e Nord Italia. Come molti emigrati calabresi. L’insegnamento più importante? «Che a volte per andare avanti si deve fare un passo indietro per permetterci di guardare meglio e da un’altra prospettiva in che direzione realmente si sta andando». Chi è Bruno Palamara? «Un ragazzo come tanti che non ha niente di speciale. Forse l’unica cosa che mi contraddistingue è che mi sono sempre fissato degli obbiettivi e mi sono impegnato con tutte forze per raggiungerli. E li ho avuti anche nei momenti più difficili. In carcere la speranza è quella che ti salva e deve essere l’ultima a morire, almeno così dicono. Io ho avuto il coraggio di guardare in faccia la realtà e la situazione era quella di un carcerato di 24 anni con 2 bambini e una moglie e 3 processi da affrontare e il rischio di passare una buona parte della mia vita lì dentro. L’unica cosa intelligente da fare non è aspettare e sperare, come si dice, ma accettare la situazione e sfruttarla in qualche modo. Va dato un senso alla sofferenza». Hai origini calabresi, da parte di tuo padre. Di dov’è tuo papà? Che rapporto hai con la Calabria? «Papà è di Bova Marina. E nella vita si è sempre dato da fare. E prima di andare a Milano ha fatto una capatina in Germania dove ha conosciuto mia madre. Ho tanti ricordi in Calabria a me cari. Non dimentico le estati passate indimenticabili della mia infanzia: il mare, i parenti e tanti cuginetti. La Calabria, per me una seconda casa, è una terra bellissima incompresa, fatta da persone brave e di cuore». Cos’è il “41 Bus” e come nasce l’idea? «41bus.it è un servizio di supporto ai familiari dei detenuti, e al momento li aiuta a raggiungere il carcere che ospita il loro caro. A breve partirà un ulteriore servizio rivolto soprattutto alle donne e mamme dei tanti bambini figli di detenuti». Hai giocato molto sull’ironia e sulla simpatia con lo slogan: “Non è stato mai così facile andare in carcere”. E hai dato così un’impronta familiare al progetto. Qual è stato il complimento più bello che hai ricevuto dai parenti dei detenuti? «L’obbiettivo che mi sono dato fin dall’inizio era di creare leggerezza in un contesto veramente pesante, a volte drammatico. Volevo strappare un sorriso alla tante donne e ai tanti bambini che continuamente devo entrare in carcere per trovare il proprio caro. Il complimento più bello? Siete come una famiglia, ci avete cambiato la vita». Hai provato in prima persona la sofferenza causata dalla lontananza forzata dai tuoi cari. Sei stato recluso prima a Busto Arsizio, poi a Voghera. Per un totale di 4 anni. Come sono stati per te questi anni? Come trascorrevi le tue giornate? «Busto Arsizio poi Monza e infine Voghera dove ho passato la maggior parte della mia detenzione. Sono stati anni difficili per me ma anche soprattutto per mia moglie che da un giorno all’altro si è trovata sola con due figlie da crescere. Vedere la sofferenza dei miei cari mi uccideva. In ogni caso per me i giorni da recluso erano stranamente indaffarati: avevo obbiettivi. E quella esperienza la dovevo trasformare in vantaggio per me. Allenamenti, tanti libri e scuola». Quanta forza ti hanno dato i tuoi figli e tua moglie? Una volta tornato a casa, alla tua terza bimba, hai dato un nome emblematico, Vittoria. «Gli affetti per un detenuto sono tutto. Sono la leva che può innescare un cambiamento. E mia moglie e i miei figli lo sono stati per me. E per questo i colloqui sono così cruciali per la rieducazione e il reinserimento. Abbiamo passato momenti in cui pensavamo di non avere più possibilità di avere un altro bambino. Ma alla fine l’abbiamo avuta. Ed è una vittoria. E mi piace pensare che se non avessi affrontato così questa esperienza sarei ancora chiuso lì dentro». Per te il carcere è stato riabilitativo e rieducativo. Come mai non lo è per tutti? Il fenomeno dei suicidi dietro le sbarre, ad esempio... «Le rispondo facendole io una domanda questa volta. Sarei mai stato capace fisicamente, mentalmente e spiritualmente di creare 41bus.it se avessi scontato 10 -15 o 20 anni di galera? La realtà è che sono stato fortunato ad avere una seconda opportunità e non tutti hanno la fortuna di potersi riscattare. Sento molto la responsabilità di dimostrare al mondo per così dire “libero” che il detenuto non è un mostro ma che si trova recluso a causa di qualche scelta sbagliata. E fuori può essere e diventare la persona più brava del mondo. Dopo 15-20 anni da rinchiusa in quattro mura una persona da un giorno all’altro viene accompagnata all’uscita con due sacchi neri e buttato fuori... no, non penso sia riabilitativo questo». Che messaggio ti senti di mandare a tutti i giovani? Soprattutto a chi, come te, è inciampato, e cerca la forza per rialzarsi? «I problemi e la sofferenza fanno parte della vita e bisogna trovare la forza di accettarli e poi di sfruttarli a proprio vantaggio. Ci si deve concentrare più sulle soluzioni». Quali sono i tuoi sogni nel cassetto e i tuoi progetti? «Un mio sogno è quello di portare 41bus davanti a ogni carcere d’Italia. Ci stiamo lavorando e ci siamo quasi. A breve saremo già in altre regioni in particolar modo al Sud».