Chiusa la requisitoria della Procura generale di Reggio Calabria, che ha chiesto la condanna all'ergastolo di Giuseppe Graviano e Rocco Santo Filippone «responsabili» degli attentati ai Carabinieri consumati a Reggio Calabria tra il '93 e il '94 nell'ambito del disegno criminale di esportare in Calabria la drammatica stagione delle Stragi, è intervenuto in Corte d'Assise d'appello a Reggio Calabria l'avvocato Giuseppe Basile del Foro di Reggio Calabria per Maria Antonia Fava e Teresa Vicari, due familiari delle vittime degli agguati all'Arma.
«È come se fosse successo ieri, la perdita di un fratello e di un figlio porta con se un dolore che si astrae dal tempo; il dolore ovviamente non cesserà, ma la Sentenza che scriverete servirà a riconciliare la mie assistite con quelle istituzioni per le quali Antonino Fava ha dato la propria vita». Aggiungendo: «Questo processo ha il merito di svelare cosa realmente sia la “mafia”. Per mezzo secolo si è dato in pasto all’opinione pubblica una visione della mafia fatta di uomini gretti pronti a sparare e attentare ai commercianti che non pagavano il pizzo, questo è stato raccontato ed è stato fatto credere. Una moltitudine di ragazzi e uomini sacrificati per un obolo mensile, a fronte di immense ricchezze gestite e spartite da pochissimi. In realtà non vi è la mafia gretta, quella dei colletti bianchi, quella dei politici, quella delle istituzioni deviate. È un tutt’uno, con un livello di governance occupato anche da figure istituzionali il cui compito sarebbe dovuto essere di tutela delle garanzie costituzionali».
«Basti solo pensare - ha aggiunto - alla matrice della sigla “falange armata”, perché quella è la chiave di lettura dei fatti accaduti. E si badi, non è una questione ideologica, dei blocchi est–occidente, o meglio non è solo quello, ma è soprattutto una questione economica, il tutto è finalizzato all’arricchimento di ambienti criminali larghi e sofisticati, in spregio all’ordinamento democratico. Senza nulla aggiungere alla ricostruzione operata dal PG Dr. Giuseppe Lombardo, cui la parte civile rivolge un sentito ringraziamento per l’attività svolta, occorre evidenziare che l’enorme tempo trascorso per accertare la verità sulle motivazioni della tragedia, è un elemento che accomuna i fatti stragisti oscuri della Repubblica italiana, laddove la mafia ed i pezzi deviati delle istituzioni, si uniscono nell’intento di piegare la vita di un intero Paese alla loro volontà criminale ed anticostituzionale. Sullo sfondo, ed è così per tutte le stragi come per quella che ci occupa, si ritrovano ambienti anche politici ed istituzionali che, in una comunità di intenti, modificano e modellano il consenso popolare e le finalità dell’Ordinamento giuridico, avallando la logica del terrore e della forza armata e stragista».
Difesa, su Filippone prova malformata
«Gli innocenti non possono pagare colpe che non hanno. Non è con il loro inutile sacrificio che si rende onore alle vittime di un’azione vile e scellerata: tanto quelli morti innocenti, quanto Rocco Filippone che a 83 anni e in gravi condizioni di salute, non può morire in carcere con lo stigma dello stragista. Perché non lo è mai stato. Non ha mai preso parte, né ha avallato accordi con Cosa nostra per adeguare la strategia stragista in Calabria». È quanto dichiarato davanti alla Corte d’Assise d’Appello di Reggio Calabria dagli avvocati Guido Contestabile e Salvatore Staiano, difensori di Rocco Santo Filippone imputato nel processo "'Ndrangheta stragista» con l’accusa di essere stato il mandante, assieme al boss di Brancaccio Giuseppe Graviano, del duplice omicidio dei carabinieri Antonino Fava e Vincenzo Garofalo, uccisi il 18 gennaio 1994 sull'autostrada, all’altezza dello svincolo di Scilla. Per entrambi gli imputati, ieri la Procura generale ha chiesto la conferma dell’ergastolo inflitto in primo grado.
Secondo i difensori di Filippone, «il processo si sorregge su tre fonti": il collaboratore di giustizia Consolato Villani «che dice di non sapere chi ha armato la sua mano"; il pentito Antonino Logiudice "che dice di avere certezze sul mandato di Rocco Filippone proprio per averle apprese da quell'incerto Villani e da Giuseppe Calabrò che smentisce un coinvolgimento dello zio nei tragici fatti che lo hanno visto protagonista». Per i legali si tratta di «una prova malformata, gracile, imperfetta e discordante che solo con un audace sforzo di fantasia creativa è stata ritenuta unitaria dalla sentenza di primo grado. Io mi rendo perfettamente conto che è facile stare dalla parte della Procura: un procuratore attento e capace, di grande comunicazione, che tutela le vittime di un agguato. Vittime che non sono vittime qualsiasi, ma sono carabinieri morti o feriti nell’adempimento del dovere. Ma la verità non ha simpatie o antipatie. Non corre dietro l’opinione pubblica o i media. Non deve essere compiaciuta o blandita. L'ambizione del procuratore Lombardo è come il Ponte sullo Stretto - sostengono Contestabile e Staiano - un’opera bellissima ma non c'è. Questo è il tempo del coraggio e della verità».
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