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Reggio, processo "Cemetery boss": le motivazioni della sentenza

Escluso il reato di associazione mafiosa: "Sulle fonti dichiarative collaborative deve in effetti riconoscersi un certo grado di genericità"

No all'accusa cardine dell'associazione mafiosa e ben cinque, delle sette pesanti condanne inflitte in primo grado dal Gup, sono state ribaltate in assoluzioni. Il processo “Cemetery boss”, che nell'ottica della Procura antimafia aveva svelato l'azione di “controllo del territorio” nei quartieri Modena, Ciccarello, San Giorgio Extra e viale Pio XI, e nello specifico aveva messo le mani sul cimitero del rione Modena, il secondo camposanto più grande della città, dove secondo le conclusioni degli inquirenti buona parte dei lavori relativi alla tumulazione e all’estumulazione delle salme, all’edificazione e alla ristrutturazione delle cappelle funerarie sarebbe stata affidata esclusivamente alle ditte «vicine o espressione» degli ambienti della criminalità organizzata.
Adesso la Corte d'Appello (presidente Giancarlo Bianchi, giudici consiglieri Elisabetta Palumbo e Davide Lauro) ha reso note le motivazioni della sentenza. Primo aspetto riguarda il contributo dei collaboratori di giustizia: «Anche tenendo conto delle censure critiche espresse dalle difese, quanto alle fonti dichiarative collaborative deve in effetti riconoscersi un certo grado di genericità delle stesse, essendosi quasi sempre risolte in affermazioni di appartenenza degli imputati, a seconda dei casi, alla cosca Rosmini o alla cosca Zindato, ma senza la rappresentazione di circostanze specifiche suscettibili di essere precisamente riscontrate o di capaci di realizzare una efficace convergenza dichiarativa, cioè probatoriamente più convincente e valida, risultandone alquanto diminuita in tal modo la portata dimostrativa in rapporto alla contestazione associativa».

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