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'Ndrangheta, Reggio una città sotto estorsione. L'escalation della cosca Libri

Pizzo ai commercianti e mazzette agli imprenditori: il racket delle estorsioni si conferma il “core business” della ‘ndrina Libri, le nuove generazioni della cosca di Reggio Calabria con base operativa nella frazione collinare Cannavò e una postazione nel direttorio di comando del mandamento “Città”. Le gerarchie moderne della cosca Libri non si limitavano ad esercitare la propria influenza nei rioni Condera, Reggio Campi, Modena-Ciccarello e San Giorgio Extra e nelle frazioni Gallina, Mosorrofa, Vinco e Pavigliana, ma puntavano ad espandersi con crescente autorevolezza criminale anche sul corso Garibaldi, nel salotto commerciale di Reggio.

È il quadro, allarmante, tracciato dalla nuova inchiesta della Dda di Reggio Calabria chiamata “Atto quarto”, eseguita l’11 ottobre scorso. «Siamo disorganizzati sul Corso... passo io o passi tu, e non passa nessuno. Così in tanti non pagano il pizzo», commentano due indagati incastrati nella retata, l'ennesimo colpo di scure (dopo “Theorema-Roccaforte”, “Libro nero” e “Malefix”) della Procura antimafia contro la storica cosca Libri. Gli eredi degli storici padrini Mico e Pasquale Libri.

Arresti e sequestri

La retata è scattata all'alba dopo il solito briefing in Questura per raccordarsi sulle decine di “obiettivi” da centrare e un esercito di agenti in azione per seguire le 28 misure cautelari - 23 in carcere e 5 ai domiciliari - disposte dal Gip di Reggio, Flavia Cocimano. Contestualmente è stato disposto il sequestro preventivo di 11 società «riconducibili ad imprenditori indagati per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa» per svariati milioni di euro: tutte nel settore dell'edilizia, delle costruzioni, immobiliare con le eccezioni di un'impresa di pulizia e una ditta specializzata in prodotti “gluten free”. Ampio il ventaglio delle accuse contestate dalla Dda: tutti adesso devono rispondere a vario titolo di associazione mafiosa, estorsione, tentato omicidio, detenzione illegale di armi, detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti.

Il boss che comandava dalla cella

Una delle figure su cui gira l’inchiesta è il 43enne Edoardo Mangiola. Quando è scattato il blitz era già in carcere, una impetuosa carriera da fedelissimo di Pasquale Libri fino all'attuale posizione apicale. Gli inquirenti non hanno dubbi sulla sua escalation, indicandolo come «capo del locale di Spirito Santo». E dal carcere continuava a comandare, a impartire indicazioni agli affiliati, a dettare ritmi e dinamiche della linea della cosca. Le imbasciate le inviava anche attraverso telefoni cellulari, ingegnosamente modificati per poterli mimetizzare e introdotti all’interno degli istituti di pena dove era recluso.

Un micro cellulare, «un Iphone piccolissimo», un marchingegno in vendita solo in rete «appositamente progettato per essere occultato», destinato al capo detenuto. Dal carcere, dove era ritornato nel giugno 2020 al culmine della retata “Malefix”, Edoardo Mangiola, il fedelissimo della 'ndrina Libri che aveva guadagnato i gradi di colonnello della cosca con base operativa a Cannavò, continuava ad esercitare il suo ruolo di reggente. Dalla sua cella, sono convinti i magistrati dell'antimafia e gli investigatori del a Squadra Mobile, assegnava compiti, imponeva le strategie del gruppo mafioso.E a tratti ci sarebbe anche riuscito inviando imbasciate all'esterno grazie al telefonino, e ai telefonini, che il suo entourage era riuscito a mettergli a disposizione. Per gli inquirenti Edorado Mangiola «ricevette ed utilizzò» un telefonino in tre case circondariali: a Catanzaro, Avellino e Parma. Ovunque fosse trasferito, insistendo anche all'indomani di un sequestro, convinto di non essere stato scoperto. Ed invece lo era stato.

Incastrato, monitorato ed indagato anche per questo reato nel blitz con cui è stato inferto l'ennesimo colpo alla cosca Libri. Anche il Gip tratteggia un profilo gravissimo a carico di Edoardo Mangiola: «Comunicando dall'interno delle tre strutture penitenziarie forniva ai sodali direttive ed istruzioni, dettava disposizioni sulla riscossione dei crediti e dei proventi estorsivi, riceveva informazioni sugli imprenditori che contribuivano al suo mantenimento in carcere ovvero al pagamento delle sue spese legali, in tal modo mantenendo il suo ruolo direttivo in seno alla compagine mafiosa». Il regista dell'operazione era lo stesso Edoardo Mangiola, il braccio operativo il figlio Beniamino, anche lui arrestato nell'operazione “Atto Quarto”.

Il nuovo organigramma della cosca Libri

In regime di detenzione sia Mangiola che il capo Antonio Libri, la reggenza della cosca è andata Antonino Votano, vertice della 'ndrina di Vinco e Pavigliana. Ogni quartiere reggino di loro competenza aveva un riferimento, tutti individuati dal pool antimafia. Nello specifico: a San Cristoforo «era andato Filippo Dotta, affiancato da Claudio Bianchetti vero e proprio braccio operativo della cosca, che per come documentato dalle indagini si relazionava costantemente ed in maniera riservata, con l’attuale reggente Votano»; a Gallina i referenti sono stati individuati nei fratelli Emanuele e Vittorio Quattrone; nelle frazioni preaspromontane di Terreti, Straorino ed Ortì, «in simbiosi con i componenti della cosca Morabito intesi “i Grilli”, operavano i sodali Carmelo e Pietro Danilo Serafino». Ed ancora Giovanni Chirico «che in una sorta di veste di ministro degli esteri è stato delegato soprattutto a gestire i rapporti con gli esponenti della cosca Tegano», ma anche quello di Antonino Gullì, originario di Roccaforte del Greco, «rivelatisi essere tra i più fidati luogotenenti di Antonio Libri».

Relazioni e alleanze della cosca Libri

Potenti, autorevoli e intraprendenti, ma anche per i Libri era un passaggio obbligato condividere e relazionarsi per strategie e spartizioni dei proventi del racket con i vertici della cosca De Stefano-Tegano. Per gli inquirenti «le interlocuzioni Carmine De Stefano (estraneo a questa indagine), Michele Crudo (genero del boss Giovanni Tegano) e Mariano Tegano (figlio del boss Pasquale Tegano), sono stati mediati, tra gli altri, dal sodale Davide Bilardi». A Reggio città, ma anche in provincia e addirittura nel nord Italia, Lombardia e Piemonte soprattutto, si manifestava la forza di penetrazione della 'ndrina Libri. L'indagine ha riscontrato «solidi rapporti» nella Locride, nella Piana di Gioia Tauro, in Aspromonte. Ed al Nord sponsorizzavano gli imprenditori di riferimento freschi di aggiudicazione di un appalto pubblico presentandoli ai capi di Milano o Torino.

Le imprese strozzate

«Le denunce continuano a crescere a Reggio Calabria: questo è un segnale rassicurate, importante, che fa ben sperare per il futuro anche perché è un dato che resta ad oggi sconosciuto in tante altre aree della città». È proprio questo l'aspetto che tiene a rimarcare il procuratore di Reggio, Giovanni Bombardieri, rispetto a quello, gravissimo, di tanti imprenditori che da vittime scelgono di condividere con i boss i destini delle loro aziende. Pagando sempre il pizzo, ma chiedendo sostegno quando aprono un cantiere in quartieri della città dove gli esattori del pizzo sono espressioni di diverse anime mafiose o per farsi consegnare un ricco subappalto; e spingendosi addirittura a farsi proteggere quando si spostano in Lombardia e Piemonte per eseguire i lavori di un appalto pubblico.

La storia dell'imprenditore Catalano

Non servivano minacce o violenza per farsi dare i soldi. Bastava chiedere un contributo «per mettersi a posto» e poter lavorare in pace, per «dare una mano alle famiglie dei carcerati», e gli imprenditori come Herbert Nunzio Catalano pagavano. Senza fiatare. A cadenza più o meno regolare, i caporioni o i loro “giannizzeri” si presentavano per farsi pagare il pizzo. Un copione andato in scena per anni, fino a quando Catalano si avvicina alla Fai, Federazione antiracket italiana, e decide di tagliare i ponti con la cosca Libri. Una decisione che provoca, secondo l’imprenditore, un’immediata reazione degli uomini del clan: i modi pacati si trasformano in freddezza, le minacce diventano reali come il fuoco che, il 2 dicembre 2022, viene appiccato al deposito aziendale della “Tecnoappalti Italia srl” di Catalano. Nell’ordinanza di custodia cautelare emessa dal gip distrettuale di Reggio Calabria emergono i particolari delle dichiarazioni rese dall’imprenditore reggino alla Dda la sera dell’incendio e 21 dicembre 2022.

«A partire dal 2015 - scrivono gli inquirenti - gli emissari della mafia locale si erano presentati nei cantieri (di Catalano ndr), per rivendicare il pagamento del pizzo… Nel 2016, si era verificato un evento che aveva rappresentato una sorta di spartiacque nei rapporti tra l’imprenditore e i rappresentanti delle ‘ndrine. Catalano, infatti, era stato avvicinato da Domenico (Mimmo) Pratesi, che gli aveva presentato Antonio (Totò) Libri che - da lì in avanti - avrebbe fatto da referente per tutte le famiglie mafiose: “Mi si presentò - racconta Catalano - tale Totò Libri… mi disse lui è il fulcro di tutte le famiglie di Reggio e quindi sarà lui da questo momento in poi l’interlocutore, a lui dovrai chiedere, cioè dovrai dare conto di quello che fai”».
Da quel momento, «Catalano aveva erogato al Libri, a titolo di “messa a posto”, somme variabili tra i 500 e i 1000 euro che venivano richieste (secondo il più tipico canovaccio di ‘ndrangheta, per il sostentamento dei detenuti). “Mi venivano chieste… - spiega l’imprenditore - proprio a titolo di aiuto alle famiglie dei carcerati questa era la frase classica… erano finalizzare al fatto che questo mi consentiva di poter lavorare senza avere… la classica messa a posto”». Nel 2018, Antonio Libri «sentendosi braccato dalle forze dell’ordine - sostengono gli inquirenti - e volendo limitare le occasioni di sovraesposizione, chiedeva a Catalano di rapportarsi - per la corresponsione del pizzo - con i Polimeno di Gallina, ovvero Demetrio (detto Mico o Mimmo) Polimeno ed il figlio Domenico, soggetti imparentati con i Quattrone. C’era stato pertanto un passaggio di consegne». A questo riguardo Catalano spiega che «questa… richiesta era quasi una cortesia che mi facevano, nel senso che faceva da tramite, quasi si scocciavano a venirmi a chiamare per dirmi ricordati che c’è questo impegno che devi assolvere…E questo è successo in un arco temporale, diciamo tra il 2017 e il 2020. Io ho trovato un appunto».

L’appunto citato da Catalano è una sorta di libro mastro nel quale l’imprenditore appunta tutti i pagamenti estorsivi che avrebbe pagato da 2015 al 2020. In quella data, Catalano aveva iniziato a frequentare le associazioni antiracket, trovando il coraggio di opporsi alle richieste estorsive. Il coraggio della denuncia è un tema ripreso da Alfonso Iadevaia, il dirigente della Squadra Mobile che ha coordinato l'inchiesta “Atto Quarto” insieme al funzionario Paolo Valenti: «Decidere e scegliere di stare con la 'ndrangheta continua ad essere una scelta perdente. Mi appello agli imprenditori: la 'ndrangheta non fa crescere. La 'ndrangheta non conviene alle vostre aziende».

Gli imprenditori al servizio dei Libri

Un appello che fino a qualche mese fa è stato del tutto ignorato da doversi imprenditori reggini. All’interno di questo mondo complesso, infatti, fatto di parole non dette, di cognomi e appartenenze da esibire e di minacce più o meno esplicite, si trovano anche imprenditori che con i clan non solo scendono a patti, ma fanno addirittura affari. In “Atto quarto” sono diversi quelli finiti in carcere (o ai domiciliari) con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa: Nunzio Magno, Antonino Pirrello, Giovanni Chirico, Giovanni Siclari (finito ai domiciliari), Giovanni Zema. Per la Dda sono «collusi» con la cosca Libri, pronti a pagare per ottenere protezione e appoggio per nuovi lavori.

Cosche contro per le zone del pizzo

«Ogni rione ha la sua cosca di riferimento», faceva notare Libera dopo il blitz della Dda. Ed effettivamente, dalle carte dell’operazione “Atto Quarto”, emerge una sorta di mappatura degli interessi delle cosche su Reggio. Che sono tanto presenti da entrare, inevitabilmente, in contrasto quando viene chiesto il pizzo alla persona “sbagliata”.

Un esempio lampante è ricostruito proprio dalla Direzione distrettuale antimafia nella recente inchiesta eseguita la settimana scorsa. Protagonisti sono i Libri e i De Stefano, nomi pesanti delle cosche del mandamento centro; lo sfondo è quello del cantiere del parcheggio del nuovo palazzo di giustizia. La squadra mobile della Questura intercetta Antonio Libri detto “Totò”: «A Paolo Rosario De Stefano gli ho fatto fare una brutta figura». Gli inquirenti riconducono il commento a «un tentativo di estorsione che De Stefano aveva posto in essere senza avvertire i Libri che ne avevano la competenza per territorio». Libri si addentra nei dettagli con il suo interlocutore: «Una mattina... che parliamo noi, che fa questo, senza dirci niente a noi... Vede, parla con la ditta, aspetta aspetta...». Poco dopo la visita in cantiere, la vittima riferisce l’accaduto a “Totò” «che – annotano gli inquirenti – dopo avere ascoltato il racconto (dell’imprenditore, ndr), avergli chiesto come avrebbe voluto regolarsi e avuta conferma che non era intenzionato a pagare (“Guarda io non glieli porto”), è andato a trovare De Stefano rimproverandogli, anche su mandato del boss Pasquale Libri, il grave sgarbo che i Libri avevano subito». La ricostruzione della Dda prosegue in questi termini: «In quella occasione Paolo Rosario De Stefano aveva tentato di giustificarsi dicendo che non aveva fatto in tempo ad avvertirli, ma Totò Libri aveva rimarcato che lui non aveva nessun titolo per prendere impegni: “Paolo... lo sa... dice ma così faccio cattivo cuore, il peggio è il tuo, ha detto mio zio Pasquale... perché tu sei un grandissimo scostumato, dice: “no ma non ho fatto in tempo... tutti”. Ma chi sei che ti prendi gli impegni...”». Un’intromissione sgradita, insomma, in una vicenda che sarebbe stata di interesse dei Libri. «A casa mia... a casa sua dispone, ma parola d’onore» commenta un altro indagato vicino alla cosca. Ad ognuno il suo, è la legge delle ’ndrine.

Il traffico di droga tra i Libri e i narcos di Platì e i clan di Catania

Non solo racket delle estorsioni. La 'ndrina Libri, come confermato dagli inquirenti dell'operazione “Atto Quarto”, facevano affari anche con il traffico di sostanze stupefacenti. I poliziotti della Squadra Mobile scoprono già nel marzo 2017 una sinergia nel settore del narcotraffico con esponenti di primo piano delle cosche di Platì, riconducibili al clan Barbaro. La conferma si ricava quando due emissari dei Libri, intercettati e monitorati dalla Procura antimafia di Reggio, «intraprendevano un viaggio nella Locride, alla volta dapprima di Platì e poi di Bianco». L'intero viaggio veniva monitorato dagli inquirenti grazie al servizio di intercettazione predisposto sul telefono in uso ad un indagato.
Il giorno dopo un'altra conversazione preziosa per chi sta indagando: «Commentava il viaggio che aveva dovuto fare il giorno prima in urgenza, rivelando che lo aveva intrapreso su indicazione di "Edoardo" (agevolmente identificabile in Edoardo Mangiola…). Lo stesso indicava anche, in conformità con quanto emergeva dalle intercettazioni, che i soggetti con cui si era interfacciato erano esponenti della famiglia Barbaro».

Il dato rilevante è la forza criminale dei Libri, visto che i Barbaro erano ben disponibili a ricomporre un equivoco mettendo a disposizione una partita di cocaina: «L'oggetto dell'incontro veniva chiarito dalle parole dell'indagato e si trattava di una controversia economica dove i Barbaro avevano proposto una partita di cocaina per chiudere la vicenda, come si poteva evincere dal gesto che compiva per spiegare al suo interlocutore i fatti ("tirava con il naso")» e commentando come «il soggetto con cui si era incontrato lo aveva rassicurato circa il loro impegno, e per dimostrare il suo appoggio, li aveva accompagnati a trovare la persona che era direttamente coinvolta nella vicenda. Nel corso di quell'incontro per risolvere con profitto la controversia, era stata proposta una fornitura di cocaina».

Narcotraffico con i boss della Locride, affari con i compari catanesi. La 'ndrina Libri spediva “pacchi” di cocaina sull'asse Reggio-Catania. Un business che emerge dalle carte dell'operazione “Atto Quarto”. Il terminale dell'affare era sempre Edoardo Mangiola. La conferma arriva agli inquirenti dal monitoraggio del telefonino che custodiva, ed usava, in carcere
Sembra paradossale, ma Mangiola si curava a usare un linguaggio in codice: «In particolare si preoccupava di esplicitare le modalità criptiche del linguaggio in cui doveva essergli recapitato il messaggio di conferma dell'acquisto da parte dei catanesi, alludendo ad "una panda" per ogni kilogrammo: “Tonino, per quanto riguarda che ne so parla di macchina … Gli devi dire è disponibile e c'è. e gli dici per esempio che c'è una Panda, due ... che ci sono due Pande tre Pande ed io capisco, capito? A livello di prezzo come gli posso dire? E quello gli devi dire, fino a là. Gli devi dire che non hai che cosa fare. Vabbò e scusa poi non gli devo dire come deve arrivare e come deve fare? Viene uno e mi trova? Viene uno e ti trova e poi tu vai ed organizzi e lui viene poi dietro di te per fatti suoi. Okay? Fatti dire però per quanto macchine che è importante”». Ordine del capo: prezzo da applicare, 38 euro per grammo.

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