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La ’ndrangheta al femminile, parità di genere in salsa criminale. Tre donne calabresi al 41 bis

L’Osce analizza un fenomeno sempre più complesso. «Donne capaci appieno di esercitare influenza». La criminaloga Anna Sergi: «In Calabria ruota tutto intorno alle donne. Per esempio, nel periodo delle faide delle donne le hanno ricomposte o scatenato le faide aizzando gli uomini a combatterle»

La conclusione vale per tutti: «I dati dimostrano che, sebbene le donne siano spesso sfruttate e vittime di gruppi criminali organizzati, possono anche esserne attori importanti». È un altro passaggio che alle nostre latitudini calza meno: «Persistenti stereotipi di genere fanno sì che il ruolo delle donne nella criminalità organizzata spesso non sia riconosciuto dagli operatori della giustizia penale. Il mancato riconoscimento dell’azione delle donne nella criminalità organizzata impedisce agli Stati partecipanti di comprendere la complessità del panorama della criminalità organizzata e ostacola la loro capacità di combattere la criminalità organizzata transnazionale o di aiutare le donne a lasciare i gruppi criminali organizzati».

Il dossier dell’Osce

A mettere questi concetti nero su bianco è l’Osce, l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa che ha appena pubblicato un dossier sul ruolo delle donne nelle mafie.  Ebbene, se la tesi della sottovalutazione vale per parecchi Stati dell’Ue, sta in piedi con difficoltà in Calabria, dove le Dda di Reggio e Catanzaro si sono imbattute spesso in figure emblematiche della ’ndrangheta in gonnella, ricostruendone profili e attività: sono nonne, mamme, mogli capaci da una parte di tenere le redini dei clan e dall’altra così forti da saper dire “basta” malgrado tutto e tutti.

Merito del rapporto pubblicato in lingua inglese è mantenere accesi i riflettori su una questione storica con evidenti implicazioni socio-culturali. L’Osce cita alla voce “Calabrian ’ndrangheta” una sola storia, quella di una donna di Palmi: «Secondo gli atti giudiziari, guidava la cosca agli inizi degli anni 2000. Non era solo una “sorella d’omertà”, ma prendeva decisioni su strategie e attività criminali – estorsioni, aggiudicazioni di appalti pubblici – su tutto il territorio della cosca. Era un’organizzatrice, coordinatrice e leader indipendente, rispettata dagli altri membri della banda, intimidendo i cittadini locali... Ha organizzato attività tra cui la gestione del denaro e l’ordinazione atti di violenta estorsione».

Secondo i dati riportati nelle 72 cartelle del dossier, «al 31 gennaio 2023 in Italia risultavano ufficialmente 728 i detenuti condannati per essere capi di associazioni mafiose e incarcerati sotto il cosiddetto “regime carcerario duro” (41 bis). Di questi, solo 12 erano donne, cifra rimasta costante negli ultimi quattro anni». E tre sarebbero le detenute al 41 bis legate alla ’ndrangheta.

Cresce il ruolo della donna nelle ‘ndrine

Il rapporto dell'Osce conferma quanto già emerso da decine di inchieste: oggi nelle ’ndrine c’è molta meno differenza tra i ruoli. Le donne di vertice prendono decisioni e sono presenti in tutti i “mercati” criminali. E non solo: affiancano competenze operative alla storica trasmissione dei disvalori criminali alle nuove generazioni, «contribuendo alle carriere criminali e alla continuità culturale di clan e gruppi».

Basato su questionari, interviste approfondite e ricerche precedenti, obiettivo del rapporto è andare oltre i tradizionali binari di genere, esaminando il ruolo delle donne considerandole come pienamente capaci di esercitare una propria influenza nella criminalità. La conferma, indiretta, anche nelle parole del procuratore Giovanni Bombardieri:  «In un mondo prettamente maschile come quello della ’ndrangheta – ha detto intervenendo sul tema la scorsa estate a Siderno – il ruolo della donna è molto importante. In moltissimi casi è emerso come la donna gestisse gli affari, ma le donne nelle famiglie di ’ndrangheta sono anche quelle che si sono ribellate, spesso per amore dei figli».

Dove però, stando sempre al focus dell’Osce, la componente femminile risulterebbe sottorappresentata è nei programmi statali di protezione dei testimoni: quando sono presenti, è come mogli o compagne di un criminale piuttosto che come partecipanti indipendenti a pieno titolo.

«Senza donne non esisterebbe la ‘ndrangheta»

Ricoprono (ufficialmente) un ruolo subalterno all’interno della famiglia, non posso essere affiliate, ma l’arresto e la condanna di donne per associazione mafiosa in provincia reggina (e non solo) non fa più notizia. Le leve del comando sono ancora precluse, in provincia di Reggio Calabria; più facile invece vederle occupare posizioni di potere nelle regioni del Nord, dove le cronache giudiziarie rimandano le immagini di spietate signore del crimine che spesso si trovano a guidare un clan a posto di compagni e mariti in carcere. Scavando più in profondità, però, anche in Calabria la donna che cresce in una famiglia di ’ndrangheta, o vi accede per matrimonio, riveste un ruolo centrale, soprattutto se è dotata di una spiccata personalità. Più in generale, alla donna tocca il compito di tenere unite le famiglie (un ruolo importantissimo nella struttura familiare dei clan calabresi). Le più spregiudicate chiedono il sangue per lavare onte e tradimenti, fomentano mariti e figli alla vendetta.

«In Calabria ruota tutto intorno alle donne»

«La ’ndrangheta non esisterebbe senza il femminile». Anna Sergi, docente in criminologia all’Università dell’Essex, è una studiosa del fenomeno della ’ndrangheta al femminile. È autrice di molte pubblicazione e, insieme al giornalista Stefano Nazzi, del podcast per il Post “Le onorate. Donne dentro e contro la ’ndrangheta”.

L’abbiamo raggiunta telefonicamente mentre era in procinto di imbarcarsi su un volo per l’Australia. «Le donne hanno sempre un ruolo nel crimine organizzato e il motivo che oggi sembra una novità è dovuto al fatto che adesso applichiamo una lente di genere che prima non applicavamo. Si è sempre parlato di donne che vivevano all’ombra dei propri uomini, di protettrici della famiglia, educatrici. Noi sappiamo, però, che in Calabria ruota tutto intorno alle donne. Per esempio, nel periodo delle faide delle donne le hanno ricomposte o scatenato le faide aizzando gli uomini a combatterle». Secondo Anna Sergi, quindi, «riconoscere oggi un ruolo alle donne dentro la ’ndrangheta è un’operazione un po’ fittizia, mentre di base c’è sempre stato. Diciamo che abbiamo scoperto l’acqua calda, tuttavia è una scoperta importante, perché immaginare che ci siano solo spinte mascoline all’interno del crimine organizzato ha portato sempre a fare un certo tipo di ragionamento anche nel contrasto alle mafie, mentre si è fatto molto poco dal punto di vista del contrasto al femminile come l’educazione, il supporto alla maternità». Questo approccio, secondo la criminologa, dovrebbe portare a «creare le capacità guardare la ’ndrangheta anche al femminile, avere un approccio al femminile del concetto dell’onore. Come abbiamo detto, le donne si sono rese capaci di portare avanti un’istanza tutta maschile, ma sappiamo anche che la ‘ndrangheta è femmina per il nome, per i suoi culti, ma soprattutto perché l’onore è un’idea legata quasi sempre alla famiglia e al rispetto della tradizione, essa stessa femminile. L’onore ha un valore fondamentale, è il cuore del potere ’ndranghetista e rende morboso l’attaccamento alle donne della famiglia. La ’ndrangheta è femminile proprio in quanto è famiglia, il suo contesto è femminile e la sua connessione con il contesto è femminile».

La responsabilità delle donne di scegliere il proprio destino

«La donna di ’ndrangheta – conclude Sergi – è una donna molto più libera di quanto noi possiamo immaginare. Purtroppo, questa libertà spesso vuol dire soccombere alle scelte della famiglia e lo si fa in maniera volontaria. Alle volte, questa libertà viene frustrata dagli uomini di casa. Ma ci sono molti casi di donne che abbracciano totalmente le istanze di mafia. Ecco, anche in questo caso bisogna capire la capacità e la responsabilità delle scelte da parte delle donne di ’ndrangheta: dove spesso noi vediamo assenza di libertà in realtà si tratta di cose un po’ più complesse: la donna che accetta il destino che la sua famiglia ha deciso per lei, non sempre lo fa rimpiangendo di non avere un’altra scelta, perché alle volte lo fa ringraziando che il suo futuro sia già tracciato».

‘Ndrangheta, donne ai lati opposti delle barricate

«Questo è un processo in cui sono protagoniste le donne, sia come vittime che come carnefici». Così i pm della Dda di Reggio Calabria, alcuni anni fa, riassumevano all’inizio della loro requisitoria l’inchiesta denominata “Tramonto”. Ai due lati della “barricata” c’erano Aurora Spanò (una delle tre donne calabresi insieme alla palmese Teresa Gallico e la paolana Nella Serpa ristrette al 41bis), considerata dall’antimafia a capo della costola di San Ferdinando della cosca Bellocco di Rosarno, e Stefania Secolo, divenuta testimone di giustizia per difendere la sua famiglia. Nella letteratura che si occupa di ’ndrangheta non è più così difficile imbattersi in donne che hanno un ruolo di primo piano, o come fiancheggiatrici, nelle cosche della provincia reggina. Molte di meno quelle che hanno avuto il coraggio di mettersi fuori dall’associazione, ribellarsi a mariti, padri e fratelli per intraprendere un percorso di affrancamento. Diversa la sorte a cui sono andate incontro: c’è chi ce l’ha fatta, chi ha pagato con la vita quella scelta.

 

Il coraggio di Stefania Secolo

La storia di Stefania Secolo è emblematica da diversi punti di vista. In primo luogo perché è una donna che con la ’ndrangheta non ha mai avuto nulla a che fare. Decide di testimoniare contro i Bellocco perché, a causa di un prestito usurario contratto dai suoi fratelli, la sua famiglia rischia di perdere la casa. Una storia, la sua, che non ha ispirato fiction e riempito le pagine dei giornali nazionali. Ma è una storia di grande coraggio, una testimonianza di fede nei confronti dello Stato. La vita di Stefania Secolo, inoltre, è legata a quella di Maria Concetta Cacciola, la testimone di giustizia morta in circostanze misteriose ingerendo acido muriatico nell’agosto 2011. A lei si era rivolta per discutere della pretesa della Spanò e del suo compagno Giulio Bellocco, di entrare in possesso di alcuni appartamenti a Rosarno di proprietà della famiglia Secolo. Quando inizia a collaborare con la magistratura, Maria Concetta Cacciola racconta di quella storia di usura, di quel prestito di 600mila euro che la Spanò e Bellocco concedono a uno dei fratelli di Stefania, a tassi usurari che arrivano al 27%. Secondo la Dda i Secolo avrebbero preferito soccombere al diktat dei Bellocco piuttosto che aiutare gli investigatori a farli uscire da quella morsa mafiosa. Stefania invece si ribella e manda in galera la Spanò e Bellocco.

Il sacrificio di Cetta Cacciola

Non essere riusciti a provare il suo omicidio, non toglie nulla alla tragedia di Maria Concetta Cacciola. Le ripetute violenze da parte della sua famiglia sono iniziate prima della decisione di diventare una testimone di giustizia, da quando aveva iniziato a ribellarsi a un marito violento che entrava e usciva dal carcere. Secondo quanto emerso dalle indagini, Concetta abbandona la località protetta facendo ritorno a Rosarno perché i suoi figli non sono con lei. E proprio su questo battono i suoi familiari (soprattutto sua madre Anna Rosalba Lazzaro) per farla tornare a casa e ritrattare. La storia del ritorno a Rosarno, della messinscena della sua ritrattazione orchestrata dai suoi familiari e da due avvocati fini in carcere e condannati, è stata fissata in una sentenza.

Il sogno di libertà di Maria Concetta Cacciola, invece, dura solo tre mesi, un sogno coltivato a lungo, ma che si conclude in maniera tragica a soli 31 anni nel bagno della casa dei suoi, dopo avere ingerito dell’acido muriatico.

La redenzione di Giusy Pesce

Rosarno è il teatro di un’altra storia di ribellione al femminile contro la ’ndrangheta. Come Concetta Cacciola anche Giuseppina Pesce (detta Giusy) nasce e cresce in una famiglia di ’ndrangheta. E come Concetta è sposa ragazzina con un uomo che entra ed esce dal carcere. La decisione di cambiare vita avviene quando finisce in carcere nell’operazione “All Inside” insieme a sua padre, sua madre e ai suoi fratelli. E proprio contro di loro testimonierà per guadagnarsi la libertà di andare via da Rosarno e ricominciare da capo. La sua vicenda diventa parte anche della serie tv “The good mothers” prodotta da Disney+.

 

‘Ndrangheta, nei volti delle mamme la luce della speranza

Nei suoi 25 anni di permanenza a Reggio Roberto Di Bella, oggi presidente del Tribunale per i minorenni di Catania, si è trovato a giudicare prima i padri e poi i figli di famiglie ’ndranghetiste ed a quel punto ha capito che non si poteva più stare a guardare. Ed oggi, il progetto “Liberi di scegliere” – che ha rivoluzionato ed umanizzato la giustizia minorile ed il ruolo delle Istituzioni in determinati contesti spesso percepite come nemiche – trae la sua forza anche dai volti e dalle voci di madri nei cui cuori si è accesa una lampadina di speranza: un futuro per i loro figli finalmente affrancato dal contesto malavitoso con la scoperta di altre realtà e modi diversi di vivere. E di recente le donne del progetto “Liberi di Scegliere” sono state incoraggiate dal Santo Padre, in un recente, invitate a proseguire sulla strada intrapresa.

«È stata una doppia emozione – ammette Roberto Di Bella– il Papa ha dimostrato di conoscere bene il tema, la sofferenza e lo smarrimento di chi decide di compiere queste scelte così profonde, di rottura. E poi, l’emozione di ritrovare molte di queste donne che non vedevo da anni e le cui vite ho rivisto rinascere. Il progetto “Liberi di Scegliere” ha alimentato speranze laddove sembrava non esservi speranza. È stato bello rivederle con i bambini e constatare, con mano, quelli che sono i risultati raggiunti tutti insieme con l’aiuto di Libera e della Conferenza Episcopale Italiana».

Il bilancio positivo

Da qui, un bilancio molto positivo. «In quasi dieci anni, sono entrati nel progetto circa 150 minori; circa 30 donne hanno deciso di lasciare la Calabra (e ora anche la Sicilia) per garantire alla prole un futuro libero dai condizionamenti della criminalità organizzata. È un percorso di rinascita meraviglioso. I risultati vanno ben al di là di quelle che sono le aspettative. Ho percepito – continua Di Bella – l’emozione di queste signore ma anche dei loro ragazzi che nel frattempo sono cresciuti, molti di loro hanno perso l'inflessione dialettale di origine. C’è chi studia, chi va all’Università chi, già lavora... questo mi ha fatto molto piacere». Ed oggi, sono tanti i giovani che ringraziano il giudice Di Bella per la possibilità di risalita e di riscatto. Un percorso educativo divenuto ponte culturale grazie alla associazione Biesse guidata da Bruna Siviglia, che da Sud a Nord di Italia, coinvolge, da diversi anni, tantissimi studenti in un confronto ricco di testimonianze. D’altra parte, il tempo ha scandito passaggi importanti perché, nel frattempo, il progetto Biesse “Giustizia ed Umanità – Liberi di Scegliere”, mutuato sulle idee di Di Bella, è diventato legge regionale che eleva l’offerta formativa degli studenti avvicinati ai concetti di cittadinanza attiva e di legalità attraverso la visione del film “Liberi di Scegliere” e la lettura del libro omonimo.

 

Il progetto reggino approva in Commissione parlamentare antimafia

Ma non è finita, il progetto Biesse, in collaborazione con la Commissione nazionale antimafia, approderà alla Camera dei Deputati il prossimo 22 gennaio per una pagina importantissima di confronto e di sguardo al futuro. Sono, infatti, sempre più maturi i tempi di una legge nazionale che assicuri continuità finanziaria, giuridica, psicologica al progetto di infiltrazione culturale delle mafie. «Sarebbe la chiusura del cerchio; un passaggio fondamentale dalle potenzialità enormi, che potrebbe cambiare in maniera incisiva e determinante le strategie di tutela dei minori e delle donne nei contesti di mafia e, nel contempo, assestare un colpo decisivo alle organizzazioni strutturate su base familiare o locale. A breve –  sottolinea Di Bella – ci sarà il rinnovo del protocollo governativo, che sarà esteso ad altre realtà giudiziarie oltre quella calabrese. Mi conforta la sensibilità si è elevata e che vede attualmente, depositati, in Parlamento, vari progetti di legge e la attenzione dei Ministeri della Giustizia e dell’Interno con i sottosegretari Ostellari e la calabrese Ferro che hanno preso a cuore il cruciale problema. Comincia a vedersi la luce fuori dal tunnel».

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