I traffici di coca al porto di Gioia Tauro: "Rapporti consolidati nel tempo" tra narcos e addetti ai controlli
«Si è dimostrato come i rapporti fra l'associazione criminale e i doganieri fossero tutt'altro che fugaci ed isolati»: non ha dubbi la Dda nel mettere insieme le accuse ai funzionari arrestati nei giorni scorsi nell’ambito dell’inchiesta sui flussi di cocaina dal Sud America al porto di Gioia Tauro. Le prime avvisaglie risalgono all’inchiesta “Tre Croci”, scattata nel 2022 e sfociata in una prima sentenza lo scorso aprile: il sistema avrebbe contato «su una serie allarmante di appoggi all’interno degli uffici dell’amministrazione portuale o doganale». Da quello spunto investigativo, trae origine l’operazione di questi giorni che ha portato in carcere due funzionari dell’Agenzia delle Dogane in servizio al porto di Gioia Tauro, Antonio Pititto e Mario Giuseppe Solano, e ai domiciliari una dipendente di una società di spedizioni, Elisa Calfapietra. Fermo restando che a tutt’oggi sussistono soltanto ipotesi d’accusa tute da dimostrare in sede dibattimentale, «fino a questo punto – annota la Direzione distrettuale antimafia – era stata dimostrata l’esistenza di un gruppo criminale composto da soggetti legati alle cosche dell’area tirrenica della provincia di Reggio Calabria, i quali gestivano una squadra di operatori portuali, ed alcune ditte di trasporti, e - in contatto con altre organizzazioni, sudamericane e con altre famiglie calabresi “importatrici” (particolarmente dell'area ionica della provincia reggina) - garantivano l’uscita dal porlo di Gioia Tauro dello stupefacente in transito dallo scalo, consentendone reimmissione nel mercato. E ciò era possibile anche grazie a “compiacenze odiose” di alcuni componenti dell’amministrazione portuale (oltre che di uno spedizioniere)». Leggi l'articolo completo sull'edizione cartacea di Gazzetta del Sud - Reggio