Viene chiamato quieto vivere da tutti coloro che frequentano un carcere, da chi ci lavora o sta scontando una pena. È un mix di regole non scritte, di comportamenti del vivere quotidiano all’insegna del rispetto e del riconoscimento dei reciproci ruoli, di mansioni e condizioni personali che scandiscono ogni ora trascorsa in carcere. Succede al “San Pietro” come in tutte le carceri d'Italia. Da nord a sud. È stato il collaboratore di giustizia Francesco Trunfio (33enne dal passato di fiancheggiatore delle cosche di Gioia Tauro) a raccontare in Tribunale come funzionassero le relazioni interpersonali nella casa circondariale “San Pietro” negli anni in cui era direttrice la dottoressa Maria Carmela Longo, adesso sul banco degli imputati per i presunti favoritismi di cui avrebbero beneficiato i detenuti, soprattutto quelli di rango criminale o di particolare personalità. Francesco Trunfio si è sottoposto al controesame e con la stessa chiarezza e puntualità delle precedenti udienze (in sede di esame) ha risposto al fuoco di fila di domande dell'avvocato Giacomo Iaria (con la collaborazione di Francesco Giorgio Arena), difensore della dottoressa Longo. Al legale ha confermato di «aver visto personalmente la direttrice in una sola occasione e in un incontro pubblico all'interno dell’istituto penitenziario» e soprattutto che ogni ipotetica concessione ai detenuti passava da interlocuzioni con le guardie giurate e di competenza dell'ufficio comando. Quindi per una telefonata autorizzata, per un cambio cella, per il beneficio degli spazi comuni, per vestiario, per il funzionamento della sala mensa, nell'eventualità di un'interlocuzione non si faceva riferimento al direttore. E rientrava, secondo il pentito Trunfio, anche in quella scelta di accettare le regole del quieto vivere l’assegnazione di un maggiore peso alle comunità di detenuti maggiormente in rappresentativi in termini numerici.