Processo d'appello a Roma su presunti boss e affiliati alla cosca Alvaro di Sinopoli: sconti di pena ed esclusione dell’aggravante I NOMI
Sensibili sconti di pena, esclusione per tutti dell’aggravante del reinvestimento. Questi in breve i punti salienti della sentenza emessa dalla Corte d’appello di Roma nei confronti dei 14 imputati coinvolti nell’inchiesta “Propaggine” che hanno scelto di essere giudicati con il rito abbreviato. Alla sbarra i presunti boss e affiliati alla cosca Alvaro di Sinopoli che avrebbero creato una cellula della famiglia aspromontana nella Capitale. I giudici d’appello hanno condannato Francesco Calo a 9 anni e quattro mesi di reclusione, Antonio Carzo 18 anni, Domenico Carzo 12 anni e sei mesi, Vincenzo Carzo 9 anni e sei mesi, Antonino Delfino 5 anni e sei mesi, Sebastiano Giampaolo 4 anni e sei mesi, Giovanni Pitasi 4 anni e sei mesi, Sebastiano Romeo 4 anni e sei mesi, Giuseppe Salvadore 3 anni e due mesi, Giuseppina Laganà 2 anni e cinque mesi, Simone Simari 3 anni, Pasquale Valente 11 anni e due mesi, Giulio Versace 8 anni, Pasquale Vitalone 11 anni e un mese. Tutti erano stati condannati nel 2023 dal gup di Roma a pene dai 10 ai 20 anni di reclusione. La Corte ha riqualificato il reato contestato a Simone Simari, difeso dall’avvocato Graziella Foti del foro di Como, non riconoscendo l’accusa di associazione mafiosa. Per l’imputato, infatti, dopo una condanna in primo grado a 10 anni e otto mesi è stata disposta la revoca della libertà vigilata e la scarcerazione immediata. Gli altri 20 imputati sono stati rinviati a giudizio dal gup capitolino e stanno affrontando il processo davanti all’ottava sezione penale del Tribunale di Roma. Tra gli altri imputati anche l’altro boss dell’organizzazione Vincenzo Alvaro, che insieme ad Antonio Carzo avrebbe gestito la cellula romana della cosca sinopolese. L’inchiesta “Propaggine” è frutto di un’operazione della Dia capitolina e prende le mosse dalla presunta autorizzazione giunta dalla Calabria nel 2015 per creare una nuova locale nella Capitale. L’equilibrio criminale romano sarebbe stato modificato da Antonio Carzo e Vincenzo Alvaro. Una locale che, però, avrebbe avuto un approccio diverso rispetto al territorio di appartenenza, cioè non quello di un «controllo militare o di sopraffazione con la forza, finalità queste che sarebbero del resto impossibili» ma «quella di acquisire attività economiche mediante denaro proveniente da illeciti e acquisire un progressivo potere economico in attività commerciali lecite, controllando una fetta degli affari nei settori di interesse».