
L’accusa principale è di associazione mafiosa, perché avrebbero creato una costola del clan Alvaro di Sinopoli a Roma. Per questo e una sfilza di altri reati sono stati portati in giudizio davanti al tribunale della Capitale. Al termine del dibattimento, la Procura antimafia ha chiesto condanne pesanti per 15 dei 20 imputati che hanno scelto di essere giudicati con il rito ordinario nell’ambito del procedimento “Propaggine”. Una richiesta che giunge a meno di un mese dalla sentenza di appello per gli imputati che sono andati in abbreviato. In quella sede, però, i giudici di secondo grado oltre a sensibili sconti di pena hanno fatto cadere per tutti l’accusa di associazione mafiosa.
Al termine della sua requisitoria, il pubblico ministero ha chiesto la condanna di Antonio Alvaro a 16 anni di carcere, Domenico Alvaro 20 anni, Carmelo Alvaro 22 anni e sei mesi, Giuseppe Alvaro 20 anni, Alfredo Ascrizzi 12 anni, Franco Carmelitano 13 anni, Vincenzo Casella 12 anni, Carmelo Versace 20 anni, Francesco Luppino 13 anni, Antonino Penna 22 anni e sei mesi, Carmine Penna (classe ’79) 20 anni, Giovanni Penna 15 anni, Carmela Penna 8 anni, Maurizio Rustico 4 anni e sei mesi.
Il pm, invece, ha chiesto l’assoluzione per Domenico Rechichi, Palermino Giuseppe Durante, Antonino Gioffrè, Antonio Carzo, mentre Nicola Alvaro è deceduto durante il procedimento.
Spicca tra gli imputati per i quali è stata chiesta l’assoluzione Antonino Gioffrè, ex sindaco di Cosoleto che era stato ristretto ai domiciliari nel blitz del 10 maggio del 2022 con l’accusa di scambio elettorale politico-mafioso e favoreggiamento aggravato. Un’accusa che l’ex primo cittadino aveva sempre rigettato con forza e che dopo 3 anni sembrerebbe non avere convinto neanche la procura romana.
Al vertice dell’associazione, secondo la ricostruzione investigativa, ci sarebbe Vincenzo Alvaro che, insieme ad Antonio Carzo imputato nel processo in abbreviato, avrebbe gestito la cellula romana della cosca sinopolese.
L’inchiesta “Propaggine” è frutto di un’operazione della Dia capitolina su delega della procura antimafia e prende le mosse dalla presunta autorizzazione giunta dalla Calabria nel 2015 per creare una costola del clan aspromontano nella capitale. «Risulta accertato – scrive il gup nella motivazione alla sentenza di primo grado – che fino all’anno 2015 la locale non esisteva, di conseguenza i calabresi, così come i siciliani e i campani, orbitanti nell’area delle rispettive consorterie storiche, vivevano ed agivano nella Capitale contemporaneamente, senza prevaricazioni e senza dominare, pur operando ciascuno nei propri affari illeciti». L’equilibrio criminale sarebbe stato modificato, secondo la Dda romana, da Antonio Carzo e Vincenzo Alvaro, considerati capo dell’area criminale e capo di quella affaristica, della nuova Locale romana. Una locale che, però, avrebbe avuto un approccio diverso rispetto al suo territorio di appartenenza, cioè non quello di un «controllo militare o di sopraffazione con la forza, finalità queste che sarebbero del resto impossibili» ma «quella di acquisire attività economiche mediante denaro proveniente da illeciti e per tale via acquisire un progressivo potere economico in attività commerciali lecite, controllando una fetta degli affari nei settori di interesse».
Il collegio difensivo è composto dagli avvocati Mirna Raschi, Marina Mandaglio, Maria Grazia Salerno, Fortunato Schiava, Antonio Papalia, Giacomo Iaria, Santo Iaria, Guido Contestabile, Giovanni Piccolo, Caterina Zavaglia, Sissi Barone.

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