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L’appello di Pino Caminiti: “Diamo spazio alla ‘Biennale Gaza’ e continuiamo a fare molto rumore

Oggi fa politica attraverso la sua arte, alle Istituzioni per fermare il massacro in Palestina: «Il nostro Museo potrebbe ospitare l’inno alla vita di tanti artisti della Striscia»

In questi anni di lontananza dalla scena politica, Pino Caminiti – già vicepresidente della Provincia e segretario del Pd reggino – in realtà ha continuato “a fare politica” attraverso i libri che ha pubblicato (l’ultimo è di qualche settimana fa) e soprattutto col suo lavoro artistico. Le sue opere, infatti, sono “politiche” già per i materiali “che riusa”, dato che li seleziona tra gli scarti restituiti dal mare a cui con la sua arte assegna una seconda vita.
Conoscendo i suoi trascorsi, mi sembra si tratti di uno dei filoni culturali più forti si cui si è costruita la sua formazione politica, quella ambientalista. Poi, guardando le sue opere, si coglie subito un altro tema: gli ultimi, la loro marginalità e la loro irrilevanza. È così?
«In fondo i due temi si sovrappongono: gli ultimi cosa sono, se non degli scarti? Oggi questo dato immorale non riguarda più solo gli individui, i migranti e i tutti i disperati della Terra, ma sistemi economici, sovranità nazionali, aree geografiche. Quando si afferma il primato della forza, allora gli ultimi, o i deboli, sono interi paesi, economie, apparati tecnologici, forze militari; in sostanza, tutta quella parte di mondo incapace di competere per la supremazia. Senza più rispetto per il diritto e per le regole, vale la legge della giungla: i forti si mangiano i deboli. È quanto sta avvenendo con i dazi o con l’invasione dell’Ucraina».
Sta volutamente non citando la guerra in Palestina…
«Perché a Gaza non è in corso una guerra. Col termine guerra si intende uno scontro tra eserciti, un teatro in cui si spara da una parte e dall’altra. A Gaza è in atto una carneficina. E le dirò che trovo fastidiosa e persino stucchevole la discussione se debba definirsi genocidio oppure no. Che importanza può avere come la chiamiamo, cosa cambia? Si spara su bambini, donne e anziani, si uccidono innocenti in fila per acqua e cibo. Che altro ci serve per capire che è andato in frantumi un concetto universale, la pietà e il valore della vita, caposaldi di quella civiltà a cui formalmente Israele afferma di appartenere? Dopo l’Olocausto, il mondo aveva detto “mai più”, e invece le immagini che arrivano da Gaza ce lo ricordano incredibilmente. La verità è che si è passato il limite, e quando succede, niente e nessuno può dirsi davvero innocente».
L’Occidente, noi, siamo colpevoli di non fare di tutto per fermare questo disastro?
«È una responsabilità non individuale, ma politica. Troppi governi e istituzioni internazionali giocano a scacchi su quelle vite spezzate. Ogni giorno che non si fa nulla, è un giorno in cui muoiono centinaia di derelitti».
Che possiamo fare noi che non siamo un governo o una istituzione internazionale?
«Continuare a far rumore, tenere alta l’attenzione, non stancarci di denunciare, soprattutto non cedere all’assuefazione».
Ha una proposta concreta?
«Durante questo tempo di morte, a Gaza decine di artisti hanno continuato a lavorare, tra le macerie, all’aperto, ovunque fosse possibile. Pochi mesi fa hanno lanciato un appello alle istituzioni culturali internazionali e a chiunque volesse accoglierlo. Mettendo assieme le loro opere, realizzate sotto i bombardamenti, hanno deciso di istituire la “Biennale Gaza”, una mostra collettiva non di opere fisiche, ovviamente intrasportabili fuori da Gaza, ma di fotografie e di video dei loro lavori, una sorta di inno alla vita e alla speranza, un atto d’amore dentro le atrocità che stanno vivendo. L’appello che lanciano, col loro manifesto fondativo, è di ospitare la Biennale, di farla conoscere, di dedicarle spazio e visibilità».
Chi potrebbe raccogliere questo appello?
«Il nostro Museo Nazionale, altri musei, istituti e associazioni culturali, il Comune di Reggio o uno dei Comuni della provincia. Le faccio un esempio concreto: prima dell’estate, la “Biennale Gaza” è stata presentata nella città di Padova, a cura di quell’amministrazione comunale e di un’associazione culturale che ha curato l’evento. La mostra ha registrato uno straordinario successo di pubblico e un grande rilievo mediatico. È stato stampato un catalogo con una bellissima prefazione di Tomaso Montanari, mentre l’evento è stato presentato da David Riondino. È una iniziativa meno costosa del “tiro al montone” e ha la forza di coinvolgere diversi ambienti culturali e qualificate presenze nazionali. Se dà un’occhiata alla rassegna stampa, troverà servizi dei maggiori quotidiani e riviste specializzate».
Lei è consapevole che sta facendo un appello alle istituzioni locali in un momento di massima fibrillazione politica? Incombono scadenze elettorali impreviste e così ravvicinate che lasciano poco spazio a questioni che non siano candidature, liste, coalizioni…
«Guardi, se di fronte a quanto di inumano sta accadendo sotto i nostri occhi, l’arte, come Grimilde, si compiace di pettinarsi davanti allo specchio e la politica è tutta ridotta a “vediamo chi si candida”, allora aveva ragione mia zia Vincenzina».
Ci illumini. Che diceva zia Vincenzina?
«Dovevano operare suo marito, un difficile intervento alla milza. Le dissero che l’avrebbero operato mercoledì o giovedì. Lei disse al chirurgo: dottore, possiamo fare mercoledì, perché giovedì c’è “Don Matteo”?».

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