Verità e bellezza, dolore e disperazione, solitudine e complicità, rivalità e avidità della vita, amori e passioni, sullo sfondo del nazismo, della guerra e delle follie di Hitler, sono questi gli ingredienti di “Le assaggiatrici” (Feltrinelli), della scrittrice calabrese Rosella Postorino che ha vinto la cinquantaseiesima edizione del Premio Campiello con il netto vantaggio di 167 voti (praticamente un giurato su due) sui 278 della Giuria popolare dei Trecento Lettori Anonimi del concorso di narrativa organizzato dalla Fondazione Il Campiello-Confindustria Veneto. Un premio prestigioso, come ha ricordato il ministro per i Beni e le Attività Culturali, Alberto Bonisoli, e «una scommessa abbondantemente vinta» nelle parole della presidente del Senato, Elisabetta Alberti Casellati, intervenuti alla serata svoltasi al Gran Teatro La Fenice di Venezia e condotta da Alberto Bertolino e Mia Ceran.
Rosella Postorino, scrittrice ed editor, è nata a Reggio Calabria quarant’anni fa ed è cresciuta in Liguria, ma oggi vive a Roma ed ha già pubblicato, tra le altre cose, i romanzi “La stanza di sopra” (Feltrinelli, Premio Rapallo Carige Opera Prima e Premio Città di Santa Marinella), “Il corpo docile” (Einaudi), “L’estate che perdemmo Dio” (Einaudi, Premio Benedetto Croce). Con “Le assaggiatrici”, una storia liberamente ispirata a quella vera di Margot Wölk, che a novantasei anni aveva raccontato di essere stata “assaggiatrice” per Hitler nella caserma di Karusendorf, era nella cinquina dei finalisti insieme a Francesco Targhetta, classificatosi al secondo posto (42 voti) con “Le vite potenziali” (Mondadori), Helena Janeczek, terza (29 voti) con il suo romanzo “La ragazza con la Leica” (Guanda), già vincitore del Premio Strega, Ermanno Cavazzoni al quarto posto (25 voti) con “La galassia dei dementi” (La Nave di Teseo), e Davide Orecchio, quinto (15 voti) con “Mio padre la rivoluzione” (Minimum Fax).
Forse è vero che le storie capitano solo a chi sa raccontarle, e Rosella Postorino con questo libro, che ha avuto come testimonial Gad Lerner, ha dato voce ad una storia sommersa in quel grande, indicibile caleidoscopio apocalittico che è stato il nazismo.
Il tuo libro è stata la rivelazione dell’anno. E il Campiello lo ha premiato. Perché, secondo te, “Le assaggiatrici” ha prevalso rispetto agli altri libri concorrenti?
«Forse perché racconta un periodo storico su cui non smetteremo mai di interrogarci, come il nazismo, ma da un punto di vista inedito. E perché lo fa attraverso le storie di persone comuni costrette al compromesso per sopravvivere e che ci spingono a chiederci: che cosa avrei fatto io al posto loro?».
Cosa significa il Premio Campiello per un’autrice italiana e in particolare per una calabrese?
«Per chiunque, ricevere il Supercampiello significa vincere uno dei due più importanti premi italiani, e quindi raggiungere una visibilità che può aiutare molto la diffusione del romanzo. Da calabrese cresciuta in Liguria che vive a Roma da 17 anni, ho scoperto che il Veneto è una regione bellissima».
La tua narrativa ha ricevuto tanti riconoscimenti. E adesso questo premio. Era atteso?
«La giuria dei lettori del Campiello è imprevedibile ed è anche questa la bellezza del premio».
Secondo te, cosa hanno “trovato” i Trecento Lettori anonimi nel tuo libro?
«La storia di un gruppo di persone che lottano per stare al mondo seppur in un mondo che le ha private della libertà e che considera la loro vita una vita di serie B. Questo ha purtroppo echi nel nostro e in ogni tempo».
Credi che sia stato premiato il fatto che il tuo libro si ispiri ad una vicenda reale raccontata con gli strumenti magici della narrativa?
«Può darsi, perché era una storia sconosciuta e affascinante in cui il cibo potenzialmente avvelenato diventa la metafora del nostro tentativo di sopravvivere ogni giorno al mondo come minaccia, eppure come luogo che vorremmo ostinatamente abitare per sempre».
Certamente trovare asilo nei personaggi del tuo libro è stata una grande sfida...
«Sì, perché sono molto lontani da me, che non sono tedesca, non sono cresciuta sotto una dittatura, non ho vissuto la guerra. Ma i dolori e i desideri umani sono sempre gli stessi, ecco perché possiamo leggere Omero o Shakespeare e sentire che parlano di noi; la letteratura racconta l’umanità nella sua contraddizione, e lo fa creando personaggi che compiono un’avventura, che lottano per una meta, che amano, che odiano, che hanno bisogno degli altri o li rifuggono, che costruiscono insomma una storia».
Quali sono tuo avviso i libri di qualità capaci, oggi, di restare a lungo, di non essere consumati rapidamente e messi da parte, in una realtà in cui gli scaffali sono svuotati ogni mese e l’emivita di un libro è brevissima?
«Sono quei libri che per qualche misteriosa magia riescono a incrociare un gruppo trasversale di lettori, perché possono essere letti a più livelli: pur ponendo interrogativi complessi, e spesso senza soluzione, sono coinvolgenti e danno al lettore la sensazione di non essere solo dentro il nonsenso che è l’esistere, senza però consolarlo. Sono libri di autori come Strout, Munro, Safran Foer, Roth, Oz, Vargas Llosa... Come faccio a nominarli tutti?».
A chi o a cosa vuoi dedicare questo importante riconoscimento?
«Ieri, prima di salire sul palco, ho pensato alle persone che non ci sono più e che avrei voluto mi vedessero lì. Tra queste c’era Severino Cesari, con cui ho lavorato per anni e che conosceva la mia scrittura molto da vicino».
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