E’ stata un successo, la mostra «Cesare Berlingeri. Tra il visibile e l'invisibile. Opere 1967 – 2022», la personale dell'artista di origini cittanovesi al Palazzo della Cultura Pasquino Crupi di Reggio Calabria che ha ripercorso oltre 50 anni di attività (evento organizzato dalla Città Metropolitana in collaborazione con l'Archivio Cesare Berlingeri e la neocostituita Fondazione a lui intitolata). Un percorso straordinario – ma anche teatro e indagine filosofica, – tra forme, materia e colore, tra le opere di una delle figure più importanti del panorama dell’arte internazionale dell’ultimo secolo. Ne abbiamo parlato con Berlingeri nel suo studio: un tempio della ricerca e della bellezza, che rapisce l’osservatore. A Reggio Calabria una sintesi ragionata del suo percorso. Sin dalle origini. «Tra la fine degli anni ’60 e l’inizio del decennio successivo ho lasciato il mio paese e ho iniziato il mio confronto con un mondo in rapido mutamento. Era una fase di grande ricerca. Io provenivo dalla scuola accademica, chiaramente classica, del professore Deleo di Cittanova. A Milano vidi le opere contemporanee di Fontana e Burri, tra gli altri, e capii che il mio tempo era anacronistico. A Parigi, con il mio compaesano Adolfo Noto, vidi i primi Dalì, i primi Mondrian, i primi Kandinsky. Quelle influenze hanno cambiato il mio percorso. A 18 anni ho iniziato l’indagine sull’invisibile. Come sosteneva il filosofo Merleau Ponty, l’unica possibilità che ha l’artista è quella di dipingere l’invisibile. Questa frase mi ha perseguitato per tutta la vita. Uno stimolo che mi ha spinto a indagare anche oltre l’arte. Come dice San Paolo nella seconda Lettera ai Corinzi: “Le cose visibili sono un momento, le cose invisibili sono eterne”. E Dio è eterno. La mia prima mostra romana fu di totale rottura. In quel periodo usare il colore era quasi bandito. L’arte concettuale era portata all’ennesima potenza. Io ero affascinato dalla luce e il mio discorso era incentrato sulle trasparenze. Nel Bolaffi di quegli anni venni segnalato dal critico Cesare Vivandi, direttore dell’Accademia di Roma, come figura di sicuro avvenire». Poco dopo, la svolta della “piega”. «Quello della piegatura era un ragionamento già abbozzato prima, ma sviluppato in modo completo a teatro. Avevo dipinto un’enorme scenografia, un cielo stellato sopra un deserto. Un allestimento da piegare alla fine dello spettacolo. Fu una folgorazione. Vidi i tecnici riporre quella tela. Ogni piega racchiudeva le stelle, generando un buco nero che modificava lo spazio e assorbiva energia. Un concetto ancestrale. Ecco, quando piego una superficie il disegno diventa un dialogo tra l’ombra e la luce. Fino all’essenza. L’arte nasce dal buio, le stelle hanno bisogno del nero per mostrarsi. Io non dipingo il paesaggio, ma parte dell’universo. Il mio piegare le forme è andare verso questi strati d’infinito. Questa è la visione che ho portato in tutto il mondo». E il futuro si chiama Fondazione “Cesare Berlingeri”. «Un progetto che guarda allo scambio interculturale e al dialogo tra forme d’arte. Non un’idea statica, di mera promozione espositiva, ma di vera produzione multidisciplinare. La Fondazione sta lavorando da qualche tempo e tra pochi mesi dovrebbe trovare casa a Cittanova. L’idea è nata a Milano durante la presentazione di un mio volume a Palazzo Reale, presenti il sindaco Francesco Cosentino e il vicesindaco Antonino Fera. Da lì è iniziato un percorso complesso, una sfida vera e propria, che ci ha condotti all’iscrizione nel Terzo Settore. Sarebbe stato più semplice sviluppare questo progetto altrove, ma abbiamo scelto di operare qui e di non gettare la spugna. Per il territorio e le sue comunità».