Per noi di Reggio Calabria la via Marina è confine e polo magnetico, è la conclusione naturale della città che corre, scende, scivola verso il suo mare. Ma è anche il suo principio, il suo sorgere dalle acque che cambiano aspetto, luce, colore a ogni momento. È belvedere e parco urbano. È l’affaccio – il possesso – dello Stretto nella sua versione reggina (ché lo Stretto è uno e multiplo secondo da dove lo guardi, lo fronteggi), chiusa dall’Etna, ‘a Muntagna che visivamente ci appartiene, per diritto di paesaggio e usucapione di bellezza. La via Marina è sguardo, è identità. Come diceva un grande sindaco, che gli ha dato il suo nome, Italo Falcomatà – a lui è intitolato il Lungomare, mentre la via Marina alta è intitolata a Giacomo Matteotti, anche se “via Marina” resta l’appellativo confidenziale e il nome dell’anima – «è un sentimento». È un luogo diversamente antico, visto che è stato ricostruito più volte, l’ultima da poco più d’un secolo, ma con materiali di risulta e macerie della città crollata e implosa nel 1908: la città si erge sui propri dolori e li usa per rifarsi nuova, riaffacciarsi al suo balcone naturale, che assieme la protegge e la offre alle correnti, ai venti, al sale. È un luogo diversamente moderno, dove le forme antiche sono state reinvestite e recuperate, e accostate – grazie alla lungimiranza di alcuni amministratori – a installazioni d’arte contemporanea che oggi concorrono a creare un luogo unico, ancestrale, futuribile. È un luogo che si estende nello spazio e nel tempo: dal Lido comunale alla stazione, dalla Real Palazzina ai lavori di riqualificazione del 1994, alle visioni di Zaha Hadid. È un luogo che si estende nella vita di ciascuno di noi figli e cittadini – luogo di struscio e di socialità, di passeggiate solitarie, di nottambulismi e di jogging, di movida e di contemplazione. Uno spazio proustiano, dove le madeleine sono i gelati del chiosco di Cesare. Tutto questo, e molto altro ancora, è nel bel volume «Via Marina di Reggio Calabria. La luce del blu, racconti e visioni» firmato da due reggini indomiti: il giornalista Giuseppe Smorto, già vicedirettore di Repubblica e cronista di ogni forma di resilienza meridionale e calabrese, e il fotografo e reporter Marco Costantino, che lavora per grandi testate e agenzie nazionali. Per entrambi vale quello che scrive l’editore (un altro indomito reggino, Franco Arcidiaco della benemerita “Città del sole”) nella breve introduzione: questo è amore, «amore ostinato» per la propria città. C’è di tutto nel libro – che sarà presentato domani, alle 19, nel sito archeologico dell’Area Sacra Griso Laboccetta, a cura del Touring Club di Reggio, nell’ambito del cartellone di eventi gestiti dall’associazione Ulysses – : storie, aneddoti, suggestioni. Ombre, mitologie, leggende metropolitane. Smorto unisce lo spirito del cronista che scova e colleziona fatti e personaggi al gusto del narratore che s’innamora d’un dettaglio, del riflesso della luce sull’acqua, delle forme sinuose del “Ficomagno”, del nome popolare d’un uccello che svolazza tra scogli e palme. E c’è tutta un’ornitologia, una botanica, un’astronomia della via Marina che fa capolino, nei brevi capitoli che sono controcanti delle bellissime immagini di Costantino (per giunta, con una titolazione magistrale: i titoli, da soli, compongono un ulteriore percorso, un poemetto per allusioni, ammiccamenti, citazioni). Una narrazione doppia che procede per dettagli, cenni, lampi: la lancia di Atena, il rosso del tramonto che filtra attraverso le colonne di Tresoldi (l’ultima istallazione, la più spettacolare unione d’antico e moderno in riva allo Stretto), le sagome dei reggini che, qualunque cosa succeda, “scendono” in via Marina e la percorrono, verso l’Etna o verso i Bronzi al Museo (stelle polari, ormai, dell’immaginario cittadino), e poi di nuovo. Smorto è reggino antico, che ricorda l’odore acre dei lacrimogeni nell’aria della rivolta degli anni 70, ricorda la via Marina quando ci correvano i treni, tra gli alberi e il mare, ricorda il perduto cinema Orchidea, ma in nessun momento il suo è un “amarcord” nostalgico e passatista: semmai è amore attivo per una città viva, per cui combattere la battaglia della difesa, della bellezza. Quella che ci mostrano gli scatti di Costantino, che sono un catalogo di sguardi diversi, delle infinite possibilità che un luogo come la via Marina offre a tutti, incantando allo stesso modo i reggini e i visitatori (che non sono pochi). C’è pure una minima rassegna letteraria, da Omero a Pavese, di versi e frammenti che citano la via Marina come sineddoche dello Stretto (dove sempre e comunque la parte è per il tutto, e viceversa). Non ho a bella posta considerato la vecchia disputa sull’appellativo di «più bel chilometro d’Italia», se fu davvero una frase di Gabriele D’Annunzio: certo che è un chilometro da brivido, chiunque lo abbia detto, e continua a esserlo per chi ci vive, e non smette di vederlo (che a volte si diventa ciechi alla bellezza troppo vicina, e al Sud purtroppo questo è un problema endemico), e non smette di farsi rinnovare lo sguardo, di sapere di esserne consolato, voluto, amato.