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Viaggio emozionante nell’invisibile: stasera a Polistena Domenico Iannacone. La nostra intervista

Le storie televisive, le “inchieste sull’umano”, le mappe sentimentali del giornalista molisano diventano dramma condiviso, gesto teatrale

Chi ha amato i programmi di Domenico Iannacone, per molti anni punta avanzata della migliore offerta culturale della Rai (dove speriamo torni molto presto), sa di cosa parliamo: le sue storie che raccontano la fragilità e la bellezza, le vite nascoste, le sofferenze che nessuno ascolta, disegnano mappe sentimentali del Paese, pongono con forza il tema della comunità come condivisione, giustizia sociale, ascolto, attenzione all’altro. Le sue “inchieste sull’umano”, miracolosamente tradotte in un linguaggio televisivo di grande incanto e potenza, «I dieci comandamenti», «Che ci faccio qui» – giunte dopo anni di reportage pluripremiati, segnando una svolta e una ricchezza nuova per il giornalista molisano – sono state pietre miliari per la terza rete del servizio pubblico.

Ora quella stessa voce, quell’attitudine a raccontare l’umanità – oltre i fatti, oltre le superfici, ma anche oltre il giudizio, nel territorio dell’empatia, della comprensione, della condivisione – ha preso un’altra strada verso il cuore del pubblico: stasera all’Auditorium comunale di Polistena (ore 21), per “Teatro chiama Terra”, la nuova stagione di Dracma - Centro Sperimentale d’Arti Sceniche, andrà in scena «Che ci faccio qui», di e con Domenico Iannacone, una produzione firmata Teatro del Loto -Teatri Molisani già sold out, e applauditissima, in tutta Italia. Le storie umane, troppo umane, di Iannacone (e ci sarà anche una bella storia calabrese: quella di Bartolo Mercuri, “papà Africa” come lo chiamano a Maropati dove ha fondato l’associazione Il cenacolo, che aiuta tanti “invisibili”) si faranno dramma e gesto ed emozione scenica. Perché siamo, dobbiamo essere infaticabili “cercatori di verità” umana. Ce ne parla lui stesso.

Cosa porti, di tutte le storie che hai raccontato in tv, in questo spettacolo di, come chiamarlo, teatro etico, teatro civile, teatro postgiornalistico? Con quale criterio hai scelto storie raccontate in un’altra forma?
«Intanto ho stabilito un contatto nuovo con la parola che prima era, diciamo, molto rarefatta nella mia narrazione televisiva. Qui la parola entra prepotentemente nel racconto e s’innesca in una dimensione quasi più analitica, con prospettive diverse, con passaggi diversi. È come se a un certo punto mi fossi preso del tempo attraverso le parole, quindi anche rompendo la quarta parete, entrando fisicamente in scena per raccontare le storie da un'altra angolazione. Come se avessi avuto la possibilità di porre l'attenzione su alcune cose che la televisione, la velocità della televisione, in passato non mi dava la possibilità di analizzare. È una scelta che ha a che fare con un ordito in cui io ho cercato di inserire la mia dimensione umana, che è fatta anche d’un retroterra culturale, del perché io ho raccontato in televisione certe cose in un certo modo: è come se mi svelassi, fino a trovare un'armonia con le storie che ho raccontato. C’è un flusso d’immagini, di racconti, di testimonianza che sono molto vicini tra loro. C'è una parte che è legata al racconto della fragilità, dell’emarginazione. Al problema ambientale, che è un tema che ho avuto molto a cuore. E soprattutto c'è la dimensione di un racconto che vuole dare modo allo spettatore di riacquisire la propria umanità. È un teatro civile che si muove proprio su questo registro: dare a chi viene ad assistere forti motivazioni per autointerrogarsi su se stesso, sulla visione di un mondo che dovrebbe essere più giusto».

Cosa c’è del giornalismo e cosa c’è del teatro, in questa nuova forma di narrazione che ti sei scelto? E tu come ti definisci: giornalista, drammaturgo, narratore, maestro concertatore di storie...?
«È uno spettacolo che ha tanti registri: dalla parola si passa all'immagine, dall'immagine si passa a una dimensione quasi più sospesa. Teatrale, perché ci sono monologhi in cui io a memoria recito, racconto. C'è una parte molto forte legata alla poesia, per esempio: queste cose mi fanno essere me stesso e anche tanti altri me stesso. Mi sdoppiano continuamente e questo però mi permette di riappropriarmi della mia identità culturale, per esempio in direzione della poesia, che è stata la mia forma d’avvicinamento alla parola e quindi anche alla ricerca della verità».

A proposito di verità: cosa vorresti che fosse oggi il giornalismo? Lo hai definito di recente un «avamposto dei diritti», e anche in qualche modo un’antenna che coglie prima degli altri le cose. Cogliere e poi raccontare: ma come dovrebbe essere, nel mondo in cui l’informazione è pervasiva eppure in crisi, dove i giornali si leggono sempre meno e le regole della tv le fa il mercato?
«Io credo che il giornalismo dovrebbe riprendere possesso della propria capacità di analisi e di approfondimento, cosa che sta completamente passando di moda. Ci accontentiamo della superficie e questo non ci consente né di conoscere bene i fatti né di entrare pienamente dentro le storie. È un elemento che ci deve portare a una diversa visione di questo mestiere. Noi abbiamo un compito: essere sentinelle dei diritti, delle informazioni negate. Io vedo che c'è una forte omologazione, e noi dobbiamo svolgere un ruolo, appunto, di avamposto. Cosa che sto vedendo molto raramente come prerogativa di questa professione».

C'è qualcosa che vorresti raccontare e che non hai ancora raccontato?
«Mi piacerebbe molto raccontare l’infanzia, che è qualcosa di difficile da raccontare in televisione. Un mondo che ritengo il meno contaminato e il più puro. Penso al lavoro che ha fatto Comencini con i bambini, per esempio. Quel lavoro è come se avesse aperto una narrazione che soltanto i più piccoli possono darci di quello che chiamiamo società. E poi io voglio anche riprendere storie che ho raccontato 4 o 5 anni fa, riprendere il filo della narrazione e capire che cosa è accaduto nel frattempo, cosa è stato risolto e cosa rimane. In questo modo possiamo capire, a distanza di tempo, dove stiamo andando e dove magari stiamo anche sbagliando».

Cosa ti arriva dal pubblico, oggi, quello che respira in sala con te, che sente le vibrazioni della tua voce? Che tipo di scambio si viene a creare col pubblico, tanto ed entusiasta, che ti sta seguendo in questa tournée?
«Questa è una sorta d’immersione. Un tempo d’incontri, quasi di abbracci. Evidentemente l’assenza televisiva è stata percepita ed è diventata mancanza per un pubblico che magari amava un certo modo di raccontare le storie. Questo consente di essere di nuovo uniti, d’immergersi nuovamente in quello che hanno visto e amato in televisione. Per me c'è un ritorno emozionale fortissimo. Perché la televisione è fredda, è distante. Io sono distante. In questo modo invece è come se percepissi ogni cosa del pubblico che sta lì, seduto davanti a me, e alla fine, spesso, quando si scioglie in quell'applauso liberatorio è come se mi restituisse energie, calore, forza, vitalità. È una cosa impagabile: credo che quando tornerò a fare televisione questa cosa potrebbe essere per me una mancanza. Quindi credo proprio che il teatro dovrò continuare a farlo...».

E noi ce lo auguriamo con lui.

 

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