
C’è una storia. E c’è un uomo che la racconta. La storia è quella di Antonino De Masi, imprenditore calabrese. L’uomo che la racconta è Pietro Comito, giornalista. Non è una storia semplice. È una di quelle storie che ti portano giù, negli inferi, dove il buio non è solo assenza di luce ma presenza viva. Che ti avvolge. Ti sfida. E poi c’è anche una luce, fioca ma tenace, in questo buio. È lì che brilla negli occhi di chi non ha mai smesso di credere nella giustizia. Il libro «Inferi: La storia vera di un sopravvissuto alla ’ndrangheta» è un viaggio. Un viaggio in una terra aspra e bellissima, la Calabria, dove il vento porta con sé il profumo del mare, ma anche l’eco delle minacce sussurrate all’ombra delle montagne.
È un viaggio nell’anima di un uomo che ha scelto di resistere, anche quando tutto sembrava perduto. Nino De Masi non è un eroe nel senso classico del termine. Non ha scelto questa battaglia. L’ha subita. Come si subisce la pioggia. Ma poi ha deciso di restare in piedi sotto quel temporale, e così facendo è diventato qualcosa di più: un simbolo. Pietro Comito – vincitore del Premio Borsellino e del Premio Agenda Rossa per il suo lavoro giornalistico sotto costante minaccia – lo racconta, assieme proprio a Nino stesso, con la delicatezza di chi conosce il peso delle parole e la forza delle storie. Perché le storie possono salvarti o distruggerti. E questa storia – quella di Nino – è una storia che salva.
C’è solo un uomo con le sue paure e i suoi dubbi, che però ha trovato il coraggio di dire «no» alla ’ndrangheta. Un «no» che gli è costato caro: 13 anni sotto scorta, le sue fabbriche presidiate dall’Esercito, la sua vita vissuta con il fiato sul collo. Ma anche un «no» che ha fatto la differenza, perché De Masi ha dimostrato che resistere è possibile. A capo di un’azienda leader nel settore della meccanizzazione agricola e delle costruzioni meccaniche, il suo successo economico e l’integrità morale hanno attirato l’attenzione delle cosche locali. E le sue denunce contro le richieste estorsive e le intimidazioni mafiose hanno portato all’arresto e alla condanna definitiva di alcuni dei boss più potenti della zona.
Pietro Comito è un narratore. Un uomo che conosce bene gli inferi di cui scrive, perché li ha sfiorati più volte nel suo lavoro di giornalista d’inchiesta. Le sue parole sono come note suonate su un pianoforte antico: ogni frase risuona con una verità che non puoi ignorare. E quando leggi questo libro, senti quasi il rumore del silenzio – quel silenzio assordante che cala quando le cose importanti vengono dette a bassa voce, per paura che qualcuno possa ascoltarle. «Inferi» è anche una denuncia collettiva.
La prefazione di Antonio Nicaso – giornalista, scrittore e studioso dei fenomeni criminali di tipo mafioso – sottolinea l’importanza del coraggio individuale nella lotta contro le mafie, mentre il contributo del fondatore di Libera, don Luigi Ciotti, richiama l’attenzione sulla necessità di un impegno comune per costruire una società più giusta. Entrambi gli interventi arricchiscono il volume con riflessioni profonde sul significato della legalità e sul ruolo delle istituzioni e dei cittadini nella difesa dello Stato di diritto.
Pietro Comito dimostra ancora una volta la sua capacità di raccontare storie complesse con lucidità e passione. Il suo stile diretto ma empatico permette di entrare in contatto con la realtà quotidiana di chi vive sotto scorta, senza mai perdere la speranza in un cambiamento possibile. «Inferi» denuncia l’indifferenza e l’omertà che spesso accompagnano i fenomeni mafiosi. È un invito a riflettere sul ruolo che ciascuno può giocare nella costruzione di una società libera dalla paura e dalla corruzione.
Come dimostra la vicenda di De Masi, il cambiamento è possibile solo quando si trova il coraggio di dire «no» alle logiche criminali e «sì» ai valori della giustizia e della solidarietà. Alla fine del viaggio – perché questo libro è davvero un viaggio – ti rendi conto che non sei più lo stesso. Ti rendi conto che le storie come questa hanno il potere di cambiare le persone, perché ti costringono a guardarti dentro e a chiederti: «Cosa farei al posto suo? Avrei lo stesso coraggio?». Ne abbiamo parlato con Pietro Comito.
Nel raccontare la storia di Nino De Masi hai dovuto immergerti nei suoi “inferi”…
«Abbiamo scritto e strutturato il libro con Nino affinché fosse una lettura immersiva. Perché il lettore vivesse direttamente sulla propria pelle le vicende, come se stesse veramente immergendosi in quella che è stata la vita di Nino De Masi, calata però in un contesto che sembra quasi una saga, perché la sua è una battaglia ereditata dal papà che la iniziò negli anni 60-70. Mi ha raccontato dai momenti più difficili della sua infanzia o della sua adolescenza – quando a 14 anni insieme al fratello più piccolo armato di fucile affiancava il papà nel proteggere la propria casa e la propria azienda dagli attentati – fino ai momenti di profondissima solitudine che ha vissuto nell'affrontare una battaglia per la sopravvivenza. Perché lui ha denunciato il territorio in cui Nino Princi è stato dilaniato da una bomba; dove Francesco Inzitari, un innocente di 18 anni, è stato ammazzato per ritorsione nei confronti di suo papà Pasquale».
Il titolo “Inferi” evoca immagini potenti e drammatiche: cosa rappresentano per te questi inferi nella lotta alla ’ndrangheta?
« “Inferi” nasce perché un giorno Nino mi mostrò una lettera inviata da un mafioso detenuto a suo papà. All'epoca Nino era un ragazzino, e questo mafioso scrisse a suo padre che lo aspettava a cena, nel carcere che praticamente era un albergo, dove lui riceveva addirittura le persone. E Nino lo ricordava bene, chi fosse. E nella sua descrizione, sembrava uno di quei personaggi danteschi dell'Inferno. Cattivo. Che il male glielo leggevi tra le pieghe del viso. Da qui “Inferi”, perché gli inferi sono gli dei dell’oltretomba, dell’Ade».
Dopo anni trascorsi a raccontare storie di mafia e resistenza civile, cosa pensi sia necessario fare per rompere definitivamente il muro dell’omertà?
«La storia di Nino De Masi, come quella di tanti altri eroi nascosti dei nostri giorni, deve essere valorizzata e diventare patrimonio collettivo prima che queste persone diventino dei martiri. Quando l'opinione pubblica e il nostro Paese impareranno ad amare questi esempi, probabilmente le mafie saranno sconfitte perché non rappresenteranno più un fenomeno sociale criminale la lotta al quale è delegata esclusivamente alle forze dell'ordine o alla magistratura».
Caricamento commenti
Commenta la notizia