Reggio

Sabato 19 Aprile 2025

Piccola grande Aida “firmata” Zeffirelli: applausi al teatro Cilea di Reggio Calabria

Tutto era visto come attraverso una lente d’ingrandimento su quel minuscolo palcoscenico: non sfuggiva né un batter d’occhio né un gesto. L’impatto emozionale della delicata, struggente storia d’amore, finalmente finì per trionfare. Il trionfo più ambito per me. Non so se sarò mai più capace di fare un’altra volta pieno centro come feci con questa Aidina, piccola piccola ma immensamente grande». Così Franco Zeffirelli, non il più modesto degli uomini, commentò nel 2001 il successo della sua Aida, allestita nel piccolo teatro di Busseto, patria di Giuseppe Verdi, di cui si celebrava allora il centenario della morte. Spettacolo che, con notevoli sforzi organizzativi, Polis Cultura, Fondazione di Catona Teatro, ha importato e riproposto al teatro Cilea di Reggio per celebrare il suo 40° anno. Esperimento interessante e affascinante, pur nella sua imperfezione. In Aida la grandiosità non è un orpello ma una precisa cifra stilistica, e il rapporto fra respiro collettivo e pathos individuale non è di contrapposizione – come, per esemplificare, in una Forza del destino o in una Carmen – ma di partecipazione. Il triangolo amoroso Aida-Radames-Amneris non si svolge dentro la storia ma la determina, e i personaggi non sono psicologicamente tipizzati: sono stereotipi, e come tali pensano e agiscono. Specularmente quindi la vicenda privata è inglobata dalla dimensione collettiva, dall’inesorabilità tirannica della ragion di Stato, tradotta in quella grandiosità che tutto copre, come un gigantesco mantello. Semplificando all’osso, la zeffirelliana “lente d’ingrandimento” questo gigantesco mantello vorrebbe destrutturarlo, ma non può. E il risultato, fatalmente, sottrae più di quanto aggiunge. Con il paradosso, invero vezzosamente zeffirelliano, di aggiungere grandiosità anche quando non richiesta. La sottrazione più indigesta, inutile girarci attorno, si abbatte sulla scena del trionfo, con il taglio brutale operato (oltre che sui ballabili, del tutto aboliti) sul celeberrimo “Gloria all’Egitto”, e con le trombe della marcia che, anziché lanciate dal coro, come da una catapulta, attaccano invece in un perfetto anticlimax, quasi a chiedere scusa della loro esistenza, mandando voluttuosamente in frantumi il numero più famoso dell’opera. Di converso, il paradosso che sfregia lo straordinario finale, quelle cinque inutili figuranti velate e svolazzanti attorno ad Amneris intenta ad esalare il suo “Pace t’imploro” sulla tomba in cui l’amato Radames spira abbracciato ad Aida. Come dire: lente d’ingrandimento sì, ma adoperata al contrario. Resta dunque la storia d’amore: “delicata e struggente” definita dal Maestro, neanche fosse quella della Bohème. Lì, in effetti, opinabile aggettivazione a parte, Zeffirelli fa centro, e il sano e autentico teatro di regia paga davvero i suoi dividendi. Fin dal duetto del primo atto è palese l’attenzione riservata ad Amneris, vero motore dell’opera, al cui cospetto Aida è grigia e dimessa, fin dal principio succube e consapevole del proprio destino. Mobile, sospettosa e nevrotica l’una, immobile e supplice l’altra. Del pari esemplari il terzetto e il secondo drammatico duetto tra le due donne. E incantevole il terzo atto, meccanismo perfetto che la regia sottrae al sempre incombente rischio della stasi, e ancor più rimarchevole la grande scena di Amneris, apice drammatico della partitura, che si giova della dimensione raccolta per deflagrare in tutta la sua grandiosità. Del finale si è detto, il più bel diminuendo della storia dell’opera, al di sopra di ogni orpello, che da oltre 150 anni si spegne sulla parola Pace. Per tutti, sempre.

leggi l'articolo completo