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Torna Castelli, e si alza l’«Onda calabra». Il nuovo romanzo del reggino Vins Gallico 

Un “caso” per il giovane pm che lo porterà dallo Stretto alla Germania, terra di altri conterranei sradicati

Lo aveva promesso e lo ha fatto. Vins Gallico, lo scrittore reggino che s’era inventato, due anni fa, un giovanissimo pm, «una specie di orso Yoghi in completo grigio» «dai modi goffi e pazienti», e gli aveva dato il nome d’un leggendario professore del liceo classico di Reggio, Mimmo Castelli: in «Il Dio dello Stretto» avevamo incontrato la sua prima avventura, un capovolgimento dei classici noir, specie dei noir meridionali pieni di cliché. Piuttosto, un noir magnogreco al gusto di cremareggina, che veniva dopo una serie di altri (bei) romanzi, da «Final Cut. L’amore non resiste», con cui Gallico era stato in dodicina allo Strega 2015, a «La barriera», con Fabio Lucaferri, nel 2017, distopia tra sud e nord del mondo.

Ora ritorna in riva allo Stretto per il nuovissimo «Onda calabra» (pubblicato, come gli altri, da Fandango): oggi a Messina (libreria Bonanzinga, ore 18), domani a Castroreale (Mistery festival), sabato a Reggio (circolo Calarco ore 18), domenica al Cosenza Reading festival (17,30).

Riecco Mimmo Castelli, Reggio e i suoi angoli che nessuno conosce, un'indagine che porta assai lontano dalla Calabria, un finale che fa immaginare nuove avventure. Ma sei seriale?
«Mi sembra proprio il caso di dirlo, “riecco Mimmo Castelli”, perché l’ho appena incontrato nel tuo bel romanzo “Col buio me la vedo io”, fra l’altro nel suo ruolo consono, cioè di professore di liceo. Il mio Mimmo invece è un giovane pm cattocomunista che ricorda L’Idiota di Dostoevskij, uno che vorrebbe essere buono a tutti i costi. Uno a cui piacerebbe essere luce a tutti i costi. Purtroppo (o per fortuna, eh) ogni luce proietta un’ombra. E un’ombra e un segreto compromettono e orientano la vita di Mimmo. Di luce si riempie di nuovo Reggio Calabria, con i suoi angoli che invece stiamo raccontando in tanti. Anche questo è importante: provare a non farne un racconto stereotipato, identico al mainstream cronachistico o fotocopiato su altri luoghi del Mediterraneo già abbondantemente narrati. Perché è vero che esiste una sorellanza fra le città del Mediterraneo, ma è vero che ciascun luogo trasuda una propria identità. Stavolta Mimmo se ne andrà nel cuore della Germania… anticipando poi alcune piste investigative che saranno palesi all’inizio degli anni 2000. Onda Calabra è un libro a sé, ma ci saranno altre indagini di Mimmo…».

Perché il 1997, l'anno della morte di un simbolo della Calabria, la Calabria “altra”, che citi?
«Nel luglio ’97 viene ammazzato a Miami Gianni Versace. E io in quella stessa data faccio morire le due vittime di Onda Calabra, migranti italiani in Germania. Lo faccio sulla base dello stesso principio di Aldo Moro e Peppino Impastato: l’esecuzione del primo di fatto oscurò l’omicidio del secondo. Così i due ragazzi ammazzati in Germania vengono quasi ignorati dall’opinione pubblica. Per me scegliere quel periodo significa scegliere un momento di speranza prima di Genova 2001, della vita digitale. Quando ancora si poteva parlare concentrati, senza protesi virtuali. Un momento dell’ora e qui, con una speranza per il futuro».

“Onda calabra” è una canzone bellissima del Parto delle nuvole pesanti, che pure mischia calabrese e tedesco, («Onda calabra in doichlanda...») , e di cui poi ha fatto una versione comica, o satirica, non lo so mai, Antonio Albanese. Parli della “doichlanda” nel libro (e dentro la tua vita e altri tuoi libri)?
«La mia formazione è avvenuta fra la Calabria, Roma e la Germania. Ho lasciato un calco tedesco nel mio nome, una specie di tatuaggio orale, per non cancellare quegli anni. Onda Calabra è una canzone che parla di migrazione, “sotto in cielo che non ride mai”, e il mio libro tratta anche di quello. Di come può finire male una vicenda migratoria, di come possa essere difficile. Quindi sì, si parla della difficoltà di essere sradicati, ma anche della bellezza di conoscere altri frammenti di mondo. E poi c’è un finale con un cammeo di Peppe Voltarelli, proprio nel romanzo, che mi fa un po’ ridere, un po’ ballare. A proposito di Doichlanda: l’avanzata della peggiore destra razzista, dell’AfD, beh, si poteva intuire già in quegli anni ’90...».

Reggio è un luogo della mente?
«Reggio è un luogo estremamente fisico, con un suo grande potenziale metafisico. Una città di grande tradizione, nata per via di un’innovazione (cioè le colonie magnogreche), che vive dei cicli di fioritura e appassimento. Direi che però non è ancora mai diventata farfalla. E lo dico con rammarico, ma anche con una volontà di riscatto, che può avvenire soltanto attraverso il presupposto di restare luogo, e non trasformarsi in non luogo: se diventiamo quello è tutto finito. Se non c’è una cura collettiva, una volontà di guardare agli aspetti positivi del passato, ma soprattutto alle possibilità del futuro».

Il tuo è un giallo, persino classico, ma , come già in “Il Dio dello Stretto”, il confine tra buoni e cattivi è una linea incerta, una zona grigia. E Mimmo è portatore (insano, tormentato persino) di etica, prima che di giustizia…
«Ne “Il dio dello Stretto” avevo provato a smontare la struttura del noir classico, inserendo una parte più filosofica e spirituale. Qui c’è meno testa e più emotività, con uno sviluppo più teso, più votato alla detection, ma approfondendo maggiormente la sfera personale e psicologica di tutte le figure coinvolte. La riflessione sull’etica, sulla giustizia rimane e non ha una sua soluzione. Il punto è sempre quello: come si si comporta davanti al male che è comunque inevitabile? E soprattutto come ci si comporta con le proprie ombre interiori, i propri mostri? Mimmo è convinto di poter dire anche lui: “Col buio me la vedo io”, ma un conto è il buio fuori di noi, un conto è quello dentro di noi…».

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