«Il cinquantenario del ritrovamento dei Bronzi di Riace, da noi studiosi considerato come il Giubileo di questi inimitabili capolavori, ha mostrato tutti i limiti della politica culturale del Ministero della Cultura». Non ha peli sulla lingua Daniele Castrizio, docente di Numismatica all’Università di Messina e tra i più grandi studiosi dei Bronzi, intervenuto in apertura del convegno al Museo archeologico a cura del Segretariato regionale del Ministero della Cultura per la Calabria. «Sulla scorta delle esperienze maturate nei Paesi più avanzati – ha spiegato Castrizio – l’idea che la fruizione culturale del nostro inestimabile patrimonio archeologico possa basarsi solo sul godimento estetico dei reperti, tutt’al più accompagnato da magre schede espositive in cui si dà conto solo del secolo di produzione, non è più accettabile da parte della comunità scientifica e accademica, che continua, con sacrifici personali e spesso senza nessun finanziamento, il lavoro di ricerca e di divulgazione presso il vasto pubblico».
Il ragionamento dello studioso continua in questi termini: «Il concetto di public history ancora non è entrato nelle polverose stanze di un Ministero che appare troppo spesso non come un centro propulsore di studi e pubblicazioni, ma un distributore di appalti e di favori sempre alle medesime personalità culturali, che appaiono aver abbandonato da anni il ruolo di innovatori e di ricercatori, trasformandosi in detentori di un potere che tenta di soffocare la libera ricerca. Eppure, la public history, in Italia declinata come Archeologia pubblica, è fondamentale per la salvaguardia del nostro patrimonio archeologico: essa prevede che gli stessi studiosi si facciano “narratori” dei reperti e dei siti nei confronti della popolazione e dei fruitori culturali di parchi archeologici e musei. In quest’ottica, i Bronzi possono essere narrati da due principali punti di vista: quello iconografico e quello del significato etico e politico».
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