Correva l’anno 1986. A Reggio Calabria c’era la seconda guerra di ’ndrangheta che insanguinava le strade e c’era anche una città che inseguiva il suo riscatto sociale attraverso la Cestistica Piero Viola, una squadra di basket unica e irripetibile perché non era solo una squadra di basket. Era molto di più per Reggio e per i reggini. In quel 1986 gli stranieri della Viola, allenata da coach Santi Puglisi, erano Kim Hughes e Joe Bryant.
Una coppia che sulla carta doveva fare faville ma che in campo funzionava poco. Non c’era molta chimica tra i due fuoriclasse a stelle e strisce e quella squadra non andava come doveva. Anche se i risultati non erano quelli sperati, tuttavia l’entusiasmo dei tifosi della Viola era sempre al massimo. E la loro mascotte era il piccolo Kobe Bryant, il figlio di Joe.
Otto anni ancora da compiere, sorriso stampato che gli illuminava il volto, e un’attrazione irresistibile per la palla a spicchi. Al “Botteghelle” entrava in campo a ogni intervallo di partita della Viola e iniziava a palleggiare e a tirare in quei canestri altissimi per lui. In quei dieci minuti era sempre inseguito da mamma Pam (ex miss Pennsylvania che faceva sospirare tutto il Palasport) che doveva faticare parecchio per riportarlo a sedere nel parterre quando rientravano le squadre in campo.
«Kobe era un vero terremoto – ricorda con affetto Gaetano Gebbia, all’epoca assistente di Puglisi –. Non si fermava mai. Quando si allenava il padre lui veniva sempre in palestra e “disturbava” anche gli allenamenti facendo imbufalire coach Puglisi. Ma era un ragazzino così vivace e allegro che non si poteva non volergli bene. Capire già allora che sarebbe diventato il campione che è stato? Sarebbe servita la sfera di cristallo... Però già si capiva bene che il basket gli piaceva tanto».
In quell’anno trascorso sulle rive dello Stretto, Kobe iniziò a giocare e ad allenarsi con i ragazzini della Viola. Il suo allenatore di allora Rocco Romeo lo ricorda così: «Era un bambino molto educato e sempre gioviale, con un sorriso incredibile. Kobe voleva imitare suo padre e voleva sempre il pallone in mano e non lo passava mai a nessuno, nemmeno a Ryan, il figlio di Hughes, e questi si arrabbiava molto.
Era inutile dirgli cosa fare, lui voleva il pallone e voleva tirare. Insomma, tra i piccoli succedeva un po’ come accadeva tra i padri. Oggi provo davvero un grande dolore al pensiero che se ne sia andato così, troppo giovane. Ricordo – conclude Romeo – che spesso andavo a prenderli a casa a Kobe e a Ryan e li portavo in palestra per fare l’allenamento. E quando la Viola giocava in casa, la domenica mattina venivano sia Kim Hughes che Joe Bryant a vedere la partitella dei loro figli a Modena nel campetto delle suore».
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