La “banca” della 'ndrangheta esisteva davvero, un sistema di credito parallelo (e ovviamente illegale) gestito dalle cosche Condello e Pesce-Bellocco pronte a reinvestire i profitti illeciti nel Milanese. Regge anche in Cassazione l'inchiesta 'Ndrangheta Banking della Dda di Reggio, con sette condanne che - nei confronti di altrettanti imputati che hanno scelto il rito abbreviato - diventano definitive dopo il rigetto dei ricorsi dichiarati «inammissibili» dai giudici della seconda sezione penale. Confermata dunque la colpevolezza, già messa nero su bianco dalla Corte d'Appello a febbraio 2018, di Gianluca Favara, Fortunato Danilo Paonessa, Francesco Buda, Francesco Foti, Carlo Avallone, Antonino Cotroneo e Vincenzo Pesce, difesi dagli avvocati Francesco Calabrese, Francesco Iacopino, Mario Santambrogio, Demetrio Floccari e Antonio Managò. Verdetto finale La sentenza della Suprema Corte è stata depositata nei giorni scorsi. In 29 cartelle le Cassazione esamina una per una le questioni sollevate dai ricorrenti, pronunciandosi alla fine per l'inammissibilità confermando di fatto la pronuncia dei giudici d'appello secondo cui «dagli accertamenti della Polizia giudiziaria, dalle dichiarazioni di collaboratori di giustizia e di alcune persone offese nonché da un imponente compendio di intercettazioni era emersa la commissione di reati di usura, svolta con l'utilizzazione dei proventi dell'attività illecita di una cosca della 'ndrangheta, e di estorsione con modalità mafiose in danno di imprenditori lombardi e calabresi». Il tutto “condito” dai reati paralleli di lesioni personali ed esercizio abusivo del credito. Cerniera tra Reggio e Rosarno Nel mirino degli inquirenti è finito anche un appalto del Comune di Rosarno oggetto di interesse di più cosche, nella cui “gestione” illecita sarebbe emersa la figura di spicco di Favara, intorno alla quale ruota anche la banca parallela al centro delle indagini. Un ruolo centrale nell'ambito «dell'intensa attività di natura usuraria in danno di numerosi imprenditori, svolta con l'utilizzazione dei proventi degli illeciti di una cosca della 'ndrangheta calabrese». Per i giudici «Favara non soltanto ha assidue e strette frequentazioni con personaggi di spicco delle associazioni criminali rosarnesi e reggine ma con costoro instaura forme di collaborazione inequivocabilmente illecite, concretizzatesi nella pratica del prestito a usura, nella copertura di latitanti, nel riciclaggio di ingenti somme di denaro di provenienza certamente illecita e in più svolge certamente un ruolo strategico di collegamento tra il versante rosarnese e quello reggino, anche per dirimere questioni di estrema delicatezza, come i contrasti di tipo affaristico-imprenditoriale, legati alla concorrenza illecita tra ditte rispettivamente collegate alle diverse cosche». Botte e minacce La sentenza della Cassazione cristallizza, fra l'altro, le responsabilità su prestiti con interessi fino al 20% e sulle pressioni per l'appropriazione delle imprese in difficoltà. È il caso della Makeall di Agostino Augusto, l'imprenditore titolare anche di cinque case di cura nel Milanese che sarebbe stato persino trascinato fino in Calabria, minacciato e terrorizzato. Nel sentenziare che «sfugge ad ogni rilievo censorio la risposta data dalla Corte distrettuale al motivo d'appello teso ad ottenere la derubricazione del delitto di estorsione ai danni di Augusto Agostino in quello di tentata estorsione», la Cassazione attesta definitivamente che Favara ottenne il pagamento degli interessi usurari attraverso la consegna di tre assegni di 150mila euro ciascuno, di un attico in Alzano Lombardo e di numerose autovetture, l'affidamento della gestione delle vendite immobiliari e dei rapporti con i fornitori, dietro compenso pari al 50% degli importi, che si offriva di far risparmiare, e ottenne anche la promessa per la cessione di ulteriori cespiti immobiliari e di somme di denaro». Addirittura in ospedale è stato mandato un altro imprenditore taglieggiato, Sergio Labita, che «aveva ottenuto un prestito da Favara, consegnandogli 6 assegni per un totale di 30mila euro». Ebbene, dopo avere Ma non era ancora finita: «Nei mesi successivi, erano stati in più tempi fissati ulteriori interessi usurari, fino a quando Labita aveva stipulato un contratto preliminare di vendita di un immobile, in cui si dava atto falsamente dell'avvenuto pagamento della somma di 60mila euro a titolo di corrispettivo, in realtà mai pagato, e si stabiliva che, se non fosse stato stipulato il contratto definitivo, Labita si sarebbe potuto sciogliere dal preliminare, dietro restituzione dell'importo (mai ricevuto) di 60mila euro». È la “manovra a tenaglia” delle 'ndrine, sempre più brave ad infiltrarsi nell'economia sana. Soprattutto al Nord.