Con la cattura e la confessione di Giuseppe Mazzaferro, operaio portuale cl. ’85, che ha ammesso di essere stato lui ad uccidere, venerdì sera, il 50enne pregiudicato Massimo Lo Prete, freddato a colpi di pistola mentre si trovava a bordo della sua auto all’interno di un distributore di benzina, e i funerali della vittima, svoltisi ieri pomeriggio nella chiesa di San Francesco da Paola, in attesa che la giustizia faccia il suo corso si chiude un primo cerchio su una tragedia che ha scosso l’intera comunità e colpito diverse famiglie: quella del defunto che lascia moglie e due figli minorenni, quella del giovane assassino, fino ad oggi incensurato, e infine quella del cugino coindagato per concorso morale, testimone a suo dire inconsapevole dell’efferato delitto, che stava per trasferirsi in America per continuare oltreoceano la sua carriera di chef pluripremiato.
Mazzaferro ha raccontato di aver agito d’impeto perché stanco del fatto che l’uomo, considerato dagli inquirenti un narcotrafficante legato alla cosca Molè, lo pedinasse da tempo, specialmente negli ultimi quindici giorni. Lo avrebbe confidato al cugino aggiungendo di essere seguito anche da altri due ragazzi appartenenti ai Modaffari.
Ma per quale motivo Lo Prete avrebbe dovuto perseguitare Mazzaferro? Perché lo seguiva? Cosa aveva da dirgli? E, soprattutto, cosa c’era scritto in quel biglietto di carta trovato nella tasca dei suoi pantaloni ritenuto di «potenziale interesse investigativo»? Domande alle quali dovranno seguire delle risposte per giungere a un completo accertamento della verità.
Leggi l'articolo completo sull'edizione cartacea di Gazzetta del Sud - Reggio Calabria
Caricamento commenti
Commenta la notizia