Luigi Mittiga ci riprova: a declinare il suo atto d’amore per il suo paese, Platì, comune reggino di poco più di tremila anime e una storia difficile alle spalle. Lo aveva già fatto con «I love Platì» (2021), in cui era riuscito in qualche modo a scrivere la controstoria del paese attraverso l’altra sua grande passione, il cinema: il sottotitolo era infatti «Cento piccoli film intorno a un paese dell’Aspromonte». E forse la forma più adatta, per concludere una sorta di trilogia d’amore per Platì e di felice appartenenza, sarebbe davvero un film.
Intanto, il secondo capitolo, «Voci da Platì. Nove narratori e ventitré racconti dal 1878 a oggi» (Leonida Edizioni), una contro-antologia assai ardita, è ancora affidato alle parole – montate, quello sì, con gusto cinematografico – di ben nove narratori. Tutti autoctoni, o quasi. In vetta l’immenso Corrado Alvaro, il narratore di tutte le Calabrie, un patrimonio letterario autentico che ogni calabrese dovrebbe conoscere e amare, e poi Antonio Delfino, giornalista e scrittore che trasformò in mito letterario un autentico mito, quel «Massaru Peppi», carabiniere coi tratti d’uno Zorro aspromontano, che era suo padre, e ancora Giovanni Virgara e Michelangelo Fera e Rosario Zappia e Mimmo Catanzariti e Michele Papalia, e, ovviamente, i Mittiga d’ogni tempo: oltre a Luigi, uomo-ponte tra Calabria e Sicilia, tra letterature e cinematografie, anche Giuseppino, «medico e soccorritore nell’alluvione del 1951», e Saverio, sacerdote.
Proprio dalle loro parole comincia questo nuovo (auto) ritratto di Platì, la Platì che non t’aspetti, raccontata nel tempo (il primo racconto è del 1878) e nello spazio e nel mutare delle forme stesse del racconto. Dal tocco gotico dei Mittiga saporitamente ottocenteschi alle prose surreali e distopiche (ma fare distopia in una terra distopica assai è una vertigine) di Papalia. In mezzo, le avventure di Massaru Peppi, vendicatore dei torti e indomito persecutore di criminali (che non sempre sono dove ce li aspettiamo, e durante il fascismo coincidevano, spesso e volentieri, con le stesse istituzioni…), e i curiosi racconti degli anni Cinquanta dal gusto sperimentale di Fera (peraltro pubblicati sulla “Gazzetta del Sud” tra il 1955 e il 1957), in cui la trama è solo spunto e pretesto per disegnare una comunità di narranti e ascoltatori, di personaggi che stanno, contemporaneamente, dentro e fuori dal racconto.
Il vertice è il breve scritto autobiografico di Luigi Mittiga, dal titolo «Harvest»: il “raccolto” che dà senso e direzione a questa raccolta di sguardi e narrazioni. Parla del “suo” cinema, che è tutto quello che si fa per amore del cinema (cominciato proprio a Platì, alla Sala Loreto)(bei tempi, in cui le sale del cinema erano ovunque): aprire le sale, cercare i simili, diffondere il verbo, sfiorare i miti, come Sergio Leone. E nel gruppo di quei remoti cinefili c’era anche Ida Fazio, messinese, docente di Storia moderna a Palermo, che firma una bella introduzione, anzi un «teaser» in cui scrive, tra l’altro, che «la Heimat di Mittiga è Platì». E “Heimat” è più d’un luogo natìo: è una “piccola patria”, e ormai, dopo il film del 1984 di Edgar Reitz, anche il coagularsi dei racconti che assieme la definiscono e la vagheggiano, la trasfigurano nel ricordo e la riportano al mondo, attraverso facce, fatti, luoghi, voci.
Un precipitato di umanità e di trasformazioni di cui dà conto assai più capillare anche l’insolito blog curato da Mittiga, dove la “nazione” Platì viene indagata e ricostruita, documento per documento, facendola in ogni momento collidere con il presente e le sue suggestioni.
Tutti i racconti della raccolta (del “raccolto”), nella loro estrema varietà di forme e di valore, hanno in comune questo: sono smisurati atti d’amore per la terra e la comunità, che sono unica cosa. Una piccola, grande patria.
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