I vertici della ’ndrangheta di Reggio-città a confronto. Si sarebbero dovuti incontrare Pasquale Condello “Il supremo” e Giuseppe De Stefano, il rampollo della storica famiglia mafiosa di Archi indicato da autorevoli pentiti quale il nuovo “Crimine”, il capo dei capi. Argomento di discussione: la gestione delle tangenti, i proventi del racket delle estorsioni. «L'incontro è saltato perchè all’ultimo momento Peppe De Stefano è stato arrestato a Messina »: a svelarlo è stato ieri mattina il collaboratore di giustizia Antonino Lo Giudice, testimone nel processo d’Appello “Meta” che si sta celebrando davanti al collegio presieduto da Barbara Cappello (Cappuccio e Crucitti). A prescindere dalla discussione sulle percentuali di incasso sulle “mazzette”, l’incontro tra i due padrini della ’ndrangheta avrebbe avuto un valore storico di straordinaria importanza: perchè avrebbe dato conferma che gli anni bui della seconda guerra di ’ndrangheta erano stati messi definitivamente alle spalle e che era stato avviato il nuovo corso alla “pax” del 1991 con l’accordo su «una grande ed unica Reggio nelle mani del nuovo direttorio di ’ndrangheta tra De Stefano-Condello-Tegano e Libri». Sul tema delle tangenti Nino Lo Giudice approfondisce: «Ho gestito la sua latitanza per anni e lui mi ha fatto molti discorsi. Voleva fare estorsioni a ogni attività di Reggio Calabria». Sollecitato dalle domande del sostituto procuratore generale Adriana Fimiani, il pentito Nino Lo Giudice è intervenuto sulla figura di Cosimo Alvaro, figlio di un altro storico patriarca della ’ndrangheta calabrese, don Mico Alvaro. Tra i due non c’era un grande rapporto di conoscenza personale, né di frequentazione: «L’ho conosciuto tramite un amico comune, il barbiere di Santa Caterina Giuseppe Malara. Lui me lo presentò e lui mi informò dei suoi interessi economici su Reggio, che era di fatto il proprietario del lido Calajunco, del Pashà e di Villa Speranza. Le stesse informazioni mi sono state fornite da mio fratello Luciano, dal capitano Saverio Spadaro Tracuzzi, da Carmelo Murina (il capoclan di Santa Caterina condannato proprio mercoledì a 19 anni di reclusione nel processo “Agathos”) ». Se il racconto di Nino Lo Giudice risponde a verità saranno le stesse persone tirate in ballo a confermarlo davanti ai giudici della Corte d’Appello. Su richiesta della difesa la loro testimonianza è stata già disposta per la prossima udienza in calendario il 14 marzo. L’udienza di ieri era stata aperta dalla testimonianza di Rocco Esposito, giovane di Sinopoli che frequentava il presunto capoclan nel periodo in cui stava trascorrendo la misura del soggiorno obbligato a Reggio. «Eravamo dello stesso paese (Sinopoli) e ci siamo ritrovati nello stesso stabile, ma la nostra conoscenza era limitata, superficiale. Se avesse degli interessi economici su Reggio non ne sono a conoscenza. C’era cordialità tra noi, sapevo che non poteva guidare e sarà capitato che l’avrò accompagnato da qualche parte. Tutto qui». Fatti e conoscenze che però andrebbero spesso in controtendenza rispetto ai contenuti di alcune intercettazioni dei carabinieri del Ros. In primo grado il processo “Meta” si era concluso con una raffica di condanne. n primo grado il processo “Meta” si era concluso con una raffica di condanne. Il Gup ha infatti inflitto 8 anni di reclusione a Demetrio Condello, 15 a Pasquale Buda, 9 ad Antonino Cianci, 10 anni e 4 mesi a Domenico Barbieri, 13 anni e 4 mesi a Rocco Zito, 9 anni a Domenico Corsaro, 13 anni e 8 mesi a Santo Le Pera, 10 anni a Francesco Priore, 9 anni a Domenico Cambareri, 2 anni e 4 mesi a Francesco Condello, 2 anni e 4 mesi a Domenico Francesco Condello, 9 anni a Francesco Rodà, 5 anni a Giuseppe Greco classe 1960, 9 anni e 8 mesi a Vitaliano Grillo Brancati, 3 anni a Salvatore Mazzitelli, 2 anni a Giovanni Canale e 9 anni a Giandomenico Condello.
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