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«Ursino nel gotha
della ’ndrangheta»

ursino e costa - processo mistero

 «Sono a conoscenza che dopo il 1992 nella provincia di Reggio Calabria è stata costituita una commissione della ‘ndrangheta, al pari e con le stesse funzioni direttrici della cupola siciliana, alla quale sedevano le più importanti famiglie reggine». È uno dei passaggi più rilevanti della deposizione resa dal collaboratore di giustizia Giuseppe Costa, sentito al processo d’appello dell’indagine “Mistero”, dove risultano imputati Antonio Ursino, detto “Totò”, ritenuto a capo dell’omonima consorteria di Gioiosa Jonica. Ursino, (assistito dagli avvocati Leone Fonte e Guido Contestabile), in primo grado è stato condannato a 10 anni di reclusione, comprensivi dello sconto di un terzo per la scelta del rito alternativo, per il reato di associazione per delinquere di stampo mafioso. Gli altri coimputati nel processo sono Carlo Tramaglini (condannato a 2 anni in primo grado e difeso dall’avv. Domenico Lupis) e il cittadino di origine egiziana Mohamed Elbahrawy (1 anno e sei mesi in primo grado), entrambi accusati di intestazione fittizia di beni. Il 63enne Costa, su domande del sostituto procuratore generale Francesco Mollace, ha dichiarato che anche Antonio Ursino poteva sedersi nel tavolo della “commissione provinciale”, che nel processo Olimpia veniva intesa con il nome “Cosa nuova” mentre nell’inchiesta “Il Crimine” viene chiamata “provincia”. Secondo il collaboratore, Ursino era un appartenente alla “onorata società” con un ruolo apicale e di guida della locale di Gioiosa Superiore, per aver preso il posto del padre Francesco Ursino, a sua volta “iniziato” dal patriarca Vincenzo Ursino. Nel corso dell’esame del dottor Mollace il collaboratore, sentito in video collegamento da un sito riservato per ragioni di sicurezza, ha chiamato in causa l’imputato Ursino affermando che a Gioiosa quella famiglia operava nell’ambito delle più rilevanti azioni criminose e di affari illeciti, e che era in contrasto con la famiglia Jerinò per il controllo del territorio. Costa, in parte richiamandosi al contenuto dei verbali resi al cospetto dei magistrati della Procura distrettuale reggina, ha confermato di essere stato “iniziato” alla ‘ndrangheta con il battesimo “celebrato” dal gioiosano Nicola Scali, a sua volta imparentato con gli Ursino, agli inizi degli anni Settanta. Una militanza che si è interrotta agli inizi degli anni Ottanta, a causa di diversi arresti, fino alla guerra di mafia combattuta contro i Commisso, che gli è costata la perdita di numerosi amici e parenti, nonché una condanna definitiva all’ergastolo, scontata con lunghi periodi in regime di carcere duro. Nonostante la detenzione speciale, Costa ha riferito di aver avuto contezza di quanto avveniva fuori dal carcere grazie ai messaggi che riceveva dai codetenuti, nonché dei congiunti che le scrivevano sulle mani. In sede di controesame gli avvocati Leone Fonte e Guido Contestabile, per Ursino, hanno contestato la ricostruzione del collaboratore, in primo luogo rilevando come appaia assolutamente astrusa la ricostruzione dell’ingresso di Antonio Ursino in un sodalizio criminoso, in quanto il teste ha affermato di averlo appreso «in carcere», non indicando alcun codetenuto a riscontro. Del resto Costa, ad avviso dei due penalisti, ha fondato i suoi ricordi su «voci all’interno delle varie carceri in cui sono stato», richiamandosi solo a nomi di persone decedute oppure a vicende avvenute quando il 63enne era al 41-bis, quindi controllato senza alcuna possibilità di eludere la sorveglianza. Una novità, rispetto al contenuto dei verbali, ha riguardato l’affermazione del Costa suun «favore» che lui stesso avrebbe fatto a Ursino. «Ricordo che negli anni Ottanta –ha detto il collaboratore– Ursino aveva fuso il motore di una Giulia Alfa Romeo. Io mi sono impegnato con i Cataldo di Locri che hanno procurato una macchina simile, dalla quale è stato tolto il motore che mio fratello Pietro ha poi montato sulla carrozzeria di quella di Totò Ursino ». Sul punto gli avvocati Fonte e Contestabile hanno puntualizzato come il proprio assistito non abbia mai posseduto alcuna “Giulia”, e che comunque questa unica vicenda non dimostra certo la mafiosità di alcuno. I giudici della Corte d’appello di Reggio Calabria, (presidente Pastore, giudici Gullino e Blatti), hanno rinviato al 9 maggio per la requisitoria del dottor Mollace.

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