Con le varie operazioni “All Inside” la Dda reggina ha ripulito Rosarno dalla cosca Pesce.
Il Tribunale prima e la Corte d’Appello poi hanno recepito il teorema accusatorio, mentre la Corte di Cassazione, in accoglimento del ricorso presentato dall’avv. Mario Santambrogio, ha annullato con sentenza senza rinvio la condanna inflitta a Francesco Pesce rideterminando la pena in 8 anni e 10 mesi di reclusione.
Si è concluso, dunque, innanzi alla quinta sezione penale della Corte di Cassazione, il lungo iter giudiziale che ha riguardato Francesco Pesce cl. 78, figlio del più noto Antonino cl. 1953, detto “Testuni”, condannato all’ergastolo e considerato, dopo la morte dello zio Giuseppe e nonostante sia detenuto ininterrottamente da oltre 25 anni, il reggente dell’omonima cosca mafiosa egemone sul territorio di Rosarno.
L’operazione di polizia, denominata in codice “All Inside”, era scattata all’alba del 29 aprile 2010 con l’esecuzione di un decreto di fermo, emesso dalla Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria nei confronti di 57 personaggi ritenuti appartenere alla cosca di ’ndrangheta “Pesce”.
A conclusione del giudizio di primo grado, celebratosi con le forme del rito abbreviato, Francesco Pesce, difeso dagli avvocati Mario Santambrogio e Domenico Infantino, veniva condannato dal Gup di Reggio Calabria alla pena di 20 anni di reclusione per il delitto di associazione mafiosa, detenzione e porto di armi, riciclaggio e intestazione fittizia di beni. La Corte di Appello confermava il giudizio sulla responsabilità penale riducendo la pena a 16 anni e 8 mesi di reclusione. Avverso la sentenza della Corte di Appello, i difensori proponevano ricorso per Cassazione ed eccepivano la mancanza di prove in ordine alla responsabilità penale per i delitti di detenzione di armi, riciclaggio e intestazione fittizia rispetto ai quali, secondo i difensori, vi era una totale assenza di elementi di colpevolezza.
La Suprema Corte, condividendo le censure difensive, annullava la sentenza con rinvio a una diversa sezione della Corte di Appello reggina limitatamente alla condanna per porto e detenzione di armi, riciclaggio e intestazione fittizia e la Corte di Appello, uniformandosi ai principi di diritto indicati dal Supremo Giudice nella sentenza di annullamento, assolveva Pesce Francesco da tutti i reati fine a lui contestati individuando la pena finale in anni 10 e mesi 4 di reclusione, che era la pena inflitta dalla prima Corte di Appello per il reato associativo.
Avverso tale pronuncia, i difensori proponevano un nuovo ricorso in Cassazione eccependo un vizio nel calcolo della pena la quale, essendo stata rideterminata in anni 13 e mesi 4 di reclusione, andava conseguentemente ridotta di un terzo per effetto del giudizio abbreviato a 8 anni e 10 mesi di reclusione. La Suprema Corte, con il parere favorevole del Procuratore generale, ha deciso in conformità alle richieste difensive e, per l’effetto, ha rideterminato la pena finale in anni 8 e 10 mesi di reclusione.
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