«Viviamo da cent’anni in salute». Tra i 116 fermati dell’operazione “Mandamento”, l’ennesimo colpo al cuore inferto ieri alla ’ndrangheta dai Carabinieri del Ros, del Comando provinciale di Reggio e del Gruppo Locri, c’era anche chi - arrogante e consapevole della forza planetaria della ’ndrangheta reggina - non faceva mistero del timore che incutevano tra la gente e della forza che rappresentavano. Il boss intercettato, figlio di don Peppe Morabito “u tiradrittu” (storico patriarca di Africo adesso in carcere dopo una leggendaria latitanza) spiega al picciotto rampante: «Lo Stato sono io qua. La mafia originale però, non quella scadente».
Mafia unica e potente quella rasa al suolo dall’operazione messa a segno nel cuore della notte scorsa – 23 “locali” di ’ndrangheta (Locri, Roghudi, Condofuri, San Lorenzo, Bova, Melito Porto Salvo, Palizzi, San Luca, Bovalino, Africo, Ferruzzano, Bianco, Ardore, Platì, Cirella di Platì, Careri, Natile di Careri, Portigliola, Sant’Ilario, Reggio) monitorati, 291 indagati, 140 capi di imputazione, un decreto di fermo di 2.910 pagine – con epicentro la Locride, ma con riferimenti e addentellati nel Basso Jonio, a Reggio-città e nella Tirrenica. Insieme, ogni singola cosca avvinghiata alle altre.
Nella rete della Procura distrettuale antimafia e dell'Arma sono finiti storici padrini, ma anche - segno dell'involuzione culturale che ancora oggi strema la Calabria – un giovanotto di 15 anni che si rivolge alla figlia di uno dei vertici della famiglia mafiosa “Cataldo” di Locri (ovviamente in galera), manifestando a parole e mettendo nero su bianco con una lettera la scelta di campo: «Vorrei mettermi a disposizione per voi e la vostra famiglia». Il segno di come sia prolifico il ricambio generale nelle fila dei mafiosi.
Accuse ad ampio raggio, dall’associazione mafiosa, estorsione, porto e detenzione illegale di armi da fuoco, turbativa d’asta, illecita concorrenza con violenza e minaccia, fittizia intestazione di beni, riciclaggio, truffa e truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche e numerosi altri delitti collegati, tutti aggravati dalla finalità di agevolare l’organizzazione mafiosa denominata ’ndrangheta. Anni di indagini, approfondendo, spulciando, rivisitando decine di vecchie inchieste (a partire da “Reale”) un lavoro enorme e di tale portata che il procuratore di Reggio, Federico Cafiero de Raho, ha sobriamente puntualizzato ai cronisti: «Non chiamatela retata, mi spiacerebbe si facesse confusione».
L'indagine, che ha visto impegnati tre sostituti antimafia (Antonio De Bernardo, Francesco Tedesco e Simona Ferraiuolo), ha smascherato le nuove gerarchie della ’ndrangheta, tra doti, gradi, blasoni mafiosi e “Tribunali” per dirimere le controversie intestine. Un esercito schierato nella conquista degli appalti pubblici, inevitabilmente «pilotati dove gli imprenditori gli pagano il pizzo, inseriscono le loro imprese o utilizzano aziende apparentemente pulite».
’Ndrangheta vorace in ogni lavoro pubblico – il nuovo Tribunale, la Diocesi Vescovile di Locri, la tratta ferrata Condofuri-Monasterace – ed una holding che godeva anche dei favori e delle complicità della politica. Ad oggi solo un paio i sindaci della Locride figurano sotto inchiesta, ma sono svariate le sponsorizzazioni elettorali o la promessa di migliaia di voti ai candidati, facendo presagire, parola degli inquirenti, «inevitabili approfondimenti». Come resta da decifrare la scelta degli operai del Consorzio di bonifica dell’Alto Jonio Reggino che intascavano lo stipendio con denaro pubblico «ma erano impiegati per eseguire lavori edili di manutenzione nelle proprietà» di “Rosi” Barbaro, capo locale di Platì.
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