Il "boss dei boss", come lo chiamavano le cronache degli anni Ottanta e Novanta, deve uscire di prigione. Anche se sta scontando l'ergastolo. E il conto alla rovescia verso la libertà è già cominciato. I difensori di Domenico Paviglianiti, uno dei capi storici della 'ndrangheta reggina, ne sono convinti: "Nel suo caso la pena del carcere a vita non è tecnicamente eseguibile. Al massimo si tratta di trent'anni di reclusione, e fra un periodo e l'altro ne ha già trascorsi ventinove".
Alle spalle di quello che minaccia di diventare un pasticcio giudiziario c'è un accordo siglato tra l'Italia e la Spagna al momento dell'estradizione. "Lo Stato italiano ha violato gli impegni - dice l'avvocato Mauro Anetrini - e denuncerò l'accaduto alle autorità madrilene". Nel frattempo il tribunale di Torino dovrà prendere una decisione cruciale.
Paviglianiti, 56 anni, è rinchiuso in un penitenziario piemontese. Regime di 41 bis, il cosiddetto carcere duro per i mafiosi. Quando fu arrestato, nel 1996, era considerato fra i numeri uno dei clan che da Reggio Calabria avevano esteso i tentacoli in Lombardia e nel Nord-Ovest. Ed era sfiorato da sospetti di coinvolgimento in 140 omicidi. Lo presero in Spagna e nel 1999 lo trasferirono in Italia.
Il problema sollevato dagli avvocati di Paviglianiti è che l'ordinamento giudiziario iberico non prevede l'ergastolo. Per ottenere l'estradizione Roma dovette fornire una serie di garanzie. Nel 2006, durante gli strascichi legali della trattativa, il Ministero della giustizia assicurò alla Corte nazionale di Madrid che 'ergastolo', in Italia, non vuol dire 'cella' fino alla morte: per i detenuti che si comportano bene ci sono - dopo un certo tempo - i permessi, il lavoro esterno, persino la liberazione condizionale.
Stando alle carte della Cassazione, però, Roma potrebbe non avere detto tutto ai madrileni: per esempio, potrebbe non avergli parlato del cosiddetto "ergastolo ostativo", le norme che limitano o vietano i benefici. Ed è anche per chiarire questo punto che, su richiesta della Suprema Corte, il tribunale di sorveglianza di Torino si dovrà pronunciare nei prossimi mesi.
In una causa nata da un vecchio ricorso di Paviglianiti, che nel 2015 si era sentito rispondere "no" alla richiesta di un permesso premio: l'ordinamento penitenziario non ne prevede per i boss che non si pentono. Nei giorni scorsi la Cassazione ha respinto in via definitiva la liberazione condizionale. Paviglianiti è al 41 bis, cosa che di fatto esclude l'ipotesi che "sia stato raggiunto il sicuro ravvedimento del detenuto". Ma se gli avvocati vinceranno la partita non ci sarà carcere duro che tenga.
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